La luce di È stata la mano di Dio con le sue sfumature emozionali in grana morbida e il respiro della memoria, porta la firma di Daria D’Antonio, direttrice della fotografia di molte autrici e autori del cinema italiano indipendente (Valerio Mieli, Michela Occhipinti per citarne alcuni) che nel suo sguardo hanno trovato la giusta corrispondenza alle proprie storie. Napoletana, classe 1976, inizia a muoversi sui set a diciannove anni, e in quello che era considerato tradizionalmente un «mestiere da uomini» è riuscita a conquistarsi, film dopo film, il proprio spazio vincendo la diffidenza con cui a volte veniva guardata quando – e non solo in Italia – di direttrici della fotografia se ne contavano molto poche.

Oggi la situazione è cambiata, le donne alla macchina da presa e alla luce – come lei che svolge entrambi i ruoli – sono sempre di più, e anche nelle scuole di cinema cresce il numero di ragazze che sceglie questo indirizzo. «La varietà è importante, donne e uomini devono avere le stesse opportunità in ogni campo, ci deve essere parità di diritti e eguaglianza di salario. Una volta stabilito questo parlare di ‘sensibilità femminile’ mi lascia invece molto dubbiosa, mi fa pensare quasi a una forma di ghettizzazione: credo che la sensibilità dipenda dalla persona a prescindere dal genere» dice Daria D’Antonio. Ci parliamo al telefono la vigilia di Natale, in sottofondo le voci dei suoi figli, il rumore del pacchetto, i preparativi nella pausa dal nuovo film a cui sta lavorando, l’esordio di Emilia Mazzacurati.

È vero però che il tuo lavoro è stato a lungo riservato agli uomini.

Certo e sono felice che oggi non sia più così, ai miei corsi ci sono molte ragazze e ho tante colleghe in Italia e nel mondo con cui ci sentiamo e ci confrontiamo. Ma non mi piace mettermi nel ruolo della «perseguitata» o pensare che mi chiamano solo in nome della «quota rosa»: se vengo scelta vorrei che fosse perché sono brava e non perché sono donna. Ripeto, che le donne e gli uomini abbiano le stesse opportunità lavorative è fondamentale, al tempo stesso sono convinta che certe battaglie si fanno insieme, donne e uomini, mentre inasprire le relazioni non aiuta questa partita. Se penso alla mia esperienza sono riuscita a organizzarmi col lavoro, i figli e il resto anche grazie al rapporto con un uomo intelligente. Mi piace guardare oltre il genere, una persona è composta da molteplici sfumature. Io non ho mai pensato al mio come a un lavoro maschile, per me è quello che amo fare, e se devo parlare di discriminazione l’ho avvertita molto di più perché ero giovane che perché sono una donna.

Come hai iniziato?

Mi piaceva fotografare, sviluppavo anche le mie foto; a un certo punto mi hanno proposto di lavorare su un set e lì è scattata una passione, mi è piaciuto subito moltissimo il set in sé, con la sua dimensione comunitaria e artigianale. Poi ho avuto la fortuna di incontrare Luca Bigazzi che mi ha fatto stare in macchina e così è iniziato tutto. Gli incontri sono stati molto importanti nel mio percorso, prima di Bigazzi, quando stavo ancora a Napoli, avevo collaborato con Pasquale Mari, tra gli altri, su Teatro di guerra (1998, Mario Martone) e I Vesuviani (1997, AAVV). Bigazzi è arrivato con Pane e tulipani di Soldini (2000), abbiamo lavorato insieme per tredici anni ed è stato bellissimo. In generale posso dire di avere sempre incontrato registi molto interessanti con i quali sono rimasti rapporti di amicizia – e anche questa è una fortuna. Ho iniziato che avevo 19 anni, a Napoli era un periodo di grande fermento artistico.

Dopo queste prime esperienze cosa è accaduto? Ti sei iscritta al Centro sperimentale?

No, volevo farlo ma intanto lavoravo, ero indipendente economicamente, viaggiavo, mi divertivo, a quel punto l’idea della scuola mi era sembrata superata.

Allora, parliamo appunto degli anni Novanta, le direttrici della fotografia erano poche e non solo in Italia, anche in Francia dove ci sono state delle pioniere, penso a Agnès Godard o a Caroline Champentier si faceva fatica a trovarne.

In Italia c’era Chicca Ungaro che emigrò proprio in Francia, c’erano alcune operatrici, e diverse assistenti ma sì, a Roma eravamo molto poche. Questa cosa però non mi è mai pesata, non mi metteva in difficoltà essere l’unica, magari mi innervosivano le prove di ignoranza, quando mi dicevano che non ce la potevo fare con le macchine da presa – si girava in 35 millimetri e erano molto pesanti non come adesso col digitale. Capitava di sentire un po’ di diffidenza che però rifletteva più i pregiudizi di un certo cinema romano antico: io non mi sono mai fatta condizionare. Credo nei ruoli, con l’esperienza ho imparato a essere autorevole ma non autoritaria, una maggiore consapevolezza permette di goderti meglio il lavoro anche rispetto a gli imprevisti che hanno bisogno di soluzioni rapide. C’è sempre una tensione, e anzi io spero che rimanga così a lungo, ma padroneggiare i tuoi strumenti aiuta a sperimentare di più. Nel mio settore una parte significativa riguarda la gestione dei reparti che arrivano anche a dodici persone, all’aspetto artistico se ne devono accordare molti altri; quando 50 persone si alzano la mattina, arrivano su set e dipendono dalle tue scelte è una enorme responsabilità. In questo senso il lavoro con il cinema indipendente mi ha insegnato a essere oculata, la dimensione produttiva ha un suo peso, l’attenzione alle scelte e ai tempi è veicolata dal budget che deve essere rispettato. Poi per ogni film entrano in campo molte variabili, il soggetto, la psicologia, le condizioni di lavoro, le dinamiche produttive, e ovviamente ciascun regista ha il suo carattere. Per me è importante creare le condizioni perché l’altro si possa esprimere che sostanzialmente significa mettersi all’ascolto. Mi faccio raccontare la storia, il primo confronto avviene dopo la lettura del copione, a quel punto si ragiona insieme sulle possibili direzioni da prendere.

Quale è stato il tuo primo film da direttrice della fotografia?

Il passaggio della linea (2007) di Pietro Marcello, è stato un esordio atipico, eravamo amici e tutti agli inizi, siamo partiti all’avventura con una grande incoscienza. Fuori dalla cerchia delle amicizie ci sono stati Hai paura del buio (2010) di Massimo Coppola, era anche per lui il primo lungometraggio, e Vorrei vederti ballare (2012, Nicola Deorsola). Subito dopo Padroni di casa (2012) di Edoardo Gabbriellini, ne sono molto orgogliosa anche perché è capitato in un momento particolare della mia vita, avevo avuto un incidente e potevo usare un occhio solo.

Come ti organizzi con i tuoi figli?

Quando posso li porto insieme a me, hanno fatto le scuolette ovunque. Adesso col maggiore è più difficile perché è alle medie ma l’anno scorso, mentre eravamo a Napoli per È stata la mano di Dio, sono rimasti anche loro e hanno iniziato la scuola più tardi. Il più grande ha insegnato al piccolo a leggere e a scrivere, sono molto appassionati di cinema, sono curiosi, conoscono già le regole del set, sanno quando devono rimanere muti, come muoversi, cosa fare.

«È stata la mano di Dio» è il tuo primo film da direttrice della fotografia per Sorrentino con il quale però collabori da sempre.

Ci conosciamo da ventiquattro anni, ho partecipato a tutti i suoi film meno che L’uomo in più, la decisione di lavorare insieme su questo era in qualche modo nella natura stessa del progetto che, essendo così personale, implica un approccio emotivo anche dal punto di vista tecnico. È come un’eterna madeleine, tocca passaggi cruciali della sua esistenza, il dolore per la perdita della famiglia, il lutto, il momento in cui scatta l’amore per il cinema, e noi avendo condiviso tanto tempo insieme avevamo un vocabolario comune che ci ha anche permesso di non farci sopraffare dalle emozioni ma di tenerle sotto traccia. Ci sono state cose che non abbiamo nemmeno avuto bisogno di dirci, a cominciare dal modo in cui volevamo mostrare Napoli. Molto era già nella scrittura, e siccome si trattava di una narrazione densa ho deciso di utilizzare gli obiettivi più semplici e laddove era possibile la luce naturale. L’iperbole, che è la cifra con cui Paolo trasfigura la realtà, qui viene «smorzata», così ho scelto un formato largo e lenti morbide in modo da restituire la ricchezza dei dettagli creando un’immagine in cui tutto appare un po’ rarefatto.

Ci sono dei titoli nella tua carriera ai quali per ragioni diverse sei particolarmente legata?

Certo, per esempio La pelle dell’orso (Marco Segato, 2016), una produzione piccolissima, realizzata con pochi mezzi sulle Dolomiti in Veneto, mentre svezzavo il secondo figlio e col primo da gestire. Flesh Out – Il corpo della sposa (2019) di Michela Occhipinti, un’altra persona con cui è nata una bella amicizia. Abbiamo girato in Mauritania per 31 giorni, con una troupe ridotta, una storia che mette al centro il corpo femminile (il film racconta di una ragazza mauritana, Verida, che deve affrontare il gavage, una sorta di ingrassamento forzato in vista del matrimonio combinato dai genitori, ndr) rispetto alla quale era fondamentale mettersi in gioco con uno sguardo libero, senza voler dimostrare una tesi. In questo senso il confronto con Michela è stato fondamentale. Poi c’è Ricordi? (2018) di Valerio Mieli, è incredibile, è come se fossero tanti film insieme, raramente capita di affrontare un ventaglio di opportunità così completo.