Magari non è così vero. Ma mi piace pensare, un po’ per spirito di polemica un po’ perché tutto quello che può rivitalizzare il nostro cinema va tentato, che Gomorra – La serie e, in parte, anche 1992, siano stati i migliori film della stagione cinematografica che si sta ora concludendo. Qualcosa, insomma, che si eleva dalla definizione di «fiction», di solito attribuita ai prodotti seriali televisivi, e diventa «cinema».

In modo diverso, sia Gomorra che 1992 diventano cinema, anzi cinema come si faceva negli anni più eroici della nostra industria, proprio perché sono obbligati, dalla formula di seriali “alti” di Sky Atlantic e dalla vicinanza con serie molto amate e seguite come Games of Thrones o Boardwalk Empire o House of Cards, a seguire in qualche modo le stesse costruzioni narrative, le stesse impostazioni di montaggio alternato che seguono più personaggi, perfino analoghi modi di iniziare e finire le singole puntate. Strutturate quindi come seriali alti, da Hbo per interderci, obbligano sceneggiatori e registi, e qui penso soprattutto a Stefano Sollima e al suo gruppo, composto da due bravi registi come Francesca Comencini e Claudio Cupellini, a costruire al massimo livello la messa in scena. Senza puntare però né al cinema da 400 sale con quei dieci attori che vanno di moda che sei obbligato a prendere dai produttori, né alla regia del film da festival, altra malattia mortale della nostra industria. In qualche modo, Stefano Sollima, che è figlio di uno dei più illustri registi di genere che abbiamo avuto nel nostro paese, Sergio Sollima, autore di grandi spaghetti western, spy movies e avventurosi come Sandokan, non a caso grande seriale tv, riesce a trasportare nella fiction ricca di Sky sia la grande lezione del cinema di genere, qualcosa che abbiamo nel dna, sia a trascinare nel gioco registi magari fino a oggi più interessati a un cinema d’impegno, e penso a Francesca Comencini, altra figlia d’arte, che a sua volta si libera di una certa zavorra di cinema d’autore e porta nel nuovo genere tutta la sua finezza intellettuale. E permette a tutti di lavorare con attori meno noti, ma più freschi, che avranno cento volte più voglia di rischiare delle solite star.

Anche nel caso di 1992, diretto da Giuseppe Gagliardi, dove non c’è neppure il legame con un forte film precedente come nel caso di Gomorra, si assiste a una liberazione della fiction tradizionale. Grazie, soprattutto, a un tema da cinema d’autore. O che il cinema d’autore avrebbe dovuto trattare, e non lo ha potuto fare per ovvi motivi di vigliaccheria politica o di moralismo da prima serata generalista. E’ vero, quindi, che 1992, magari, è una serie meno rifinita narrativamente di Gomorra, ma è anche molto più libera rispetto a schemi prefissati, a cominciare dal peso del gomorra movie, perché scrive qualcosa che né la nostra fiction né il nostro cinema hanno mai saputo e osato mettere in scena.

E’ il tema, insomma, oltre alla già detta vicinanza con le serie americane, a farne una serie di culto immediato, ma anche a spingerla verso una direzione inaspettata, come quella del cinema di genere. Perché anche qui, dovendo comunque fare cinema piuttosto che fiction da tv generalista, ci si spinge nel mondo del film politico-scandalistico anni ’70, qualcosa che da anni non bazzichiamo più. E, visto che si è più liberi, si possono mettere in scena situazioni se non da pura commedia-sexy, da commedia di satira sociale, come la ragazza che per fare carriera in tv cede alle lusinghe dei corrotti e dei potenti, la ricca rampolla alto-borghese che non sa decidere se seguire le orme del padre o mettersi col poliziotto. E’ il luogo, insomma, in questo caso Sky Atlantic, a spingere i nostri registi a un fortunato ritorno al cinema di genere grazie alle serie «alte».

Non a caso si parla di progetti come un Django seriale, un Diabolik moderno, una serie da girare in Almeria con cowboy contro zombi, oltre a quella, in lavorazione, sulle avventure del giovane Papa Bergoglio, The Young Pope, affidata a Paolo Sorrentino, mentre per altre si cercano di coinvolgere Sydney Sibilia o Matteo Garrone. Lo stesso Garrone ha riconosciuto più che possibile trasformare il suo Il racconto dei racconti in un seriale tv alla Games of Thrones. A ben vedere, oggi, hanno molti più limiti, di narrazione, di temi e di messa in scena, certi piccoli e grandi film d’arte che obbligano i registi al modello sub-Dardenne con la macchina da presa fissa sulla nuca della giovane protagonista sfigata. O a una scrittura che non deve chiarire nulla nei primi venti minuti di spettacolo, per cui neanche lo spettatore capisce nulla. Al punto che diventa più “genere” il cinema d’autore del cinema di genere stesso. E sfrutta meccanismi, spesso, importati dal cinema internazionale e non sempre davvero sentiti. Meglio, allora, questo sano ritorno al nostro Dna anni ’70 con l’avventuroso, la commedia, il poliziesco.

Per tanti registi italiani, più o meno giovani, è davvero una liberazione. E per tanta nostra fiction, spesso modesta, mal scritta e mal diretta, potrebbe davvero essere una svolta interessante. Anche perché può finire per coinvolgere nell’operazione di riscrittura dei nostri codici cinematografici anche quanti si sono impegnati in questi anni nelle web series, altra forma intelligente e i novativa di seriale che, grazie all’esplosione del seriale televisivo, possono magari trovare una loro strada popolare.