Nella provincia armena di Vayots Dzor, nel sud del paese caucasico, una strada tortuosa si inerpica sul monte Amulsar e termina con la città termale di Jermuk. Sulla banchina di uno degli ultimi tornanti, un container d’acciaio giace all’ombra delle nuvole di passaggio.

A pochi passi dall’ingresso, un gruppo di giovani del posto lava le stoviglie con la neve, in vista di un pasto frugale. A dispetto delle sembianze fortunose, questo alloggio è stato pensato per bloccare le attività di un potere economico duro come le roccia.

PORTA IL NOME di Lydian International Limited (Lydian Ltd.), multinazionale nata nel 2005 in Colorado, con sede legale nel paradiso fiscale delle isole Jersey. Se il business principale di Lydian Ltd. è estrarre oro, quello dei ventuno armeni che, ogni settimana, si danno il cambio presso il container, è impedirglielo.

«Quando Lydian ha iniziato gli scavi, l’acqua del villaggio di Gndevaz è diventata nera. Così, alla luce della rivoluzione, le persone del posto si sono fatte sentire: non volevano una miniera da queste parti».

Quando Arthur Grigoryan, 32 anni, prende la parola, nello spazio adibito a salotto nel container cala il silenzio. In sottofondo, lo scoppiettìo del fuoco di una stufa; sulla parete, un poster raffigura il monte Amulsar racchiuso fra due mani: «Amiamo l’Armenia e Jermuk. Questa città è ricca d’acqua: l’unica cosa insostituibile. Non vogliamo scambiare questo tesoro con oro».

I LAVORI per la costruzione della miniera d’oro di Amulsar iniziano nell’ottobre del 2016, dopo anni di studi d’impatto ambientale e sociale – la città di Jermuk è fin dall’epoca sovietica destinazione per turisti in cerca di relax e SPA. Qual è l’accordo? La multinazionale estrae oro per dieci anni, mentre Jermuk ottiene 700 posti di lavoro. Ma poi avviene qualcosa di inimmaginabile.

Nell’aprile 2018, una rivoluzione di velluto fa cadere il regime ventennale del Partito repubblicano armeno (Rpa), lo stesso che aveva dato la concessione a Lydian Ltd. Sulla scia dell’afflato democratico, un gruppo di residenti, spinti dalla comunità locale, ferma la costruzione della miniera creando quattro posti di blocco in concomitanza degli accessi al sito. È l’inizio di una lunga crisi “diplomatica” fra la corporation e lo Stato armeno che dura da quasi due anni a questa parte.

Da Jermuk a Erevan ci vogliono tre ore e mezzo di macchina, ma sembra di viaggiare anni luce. Nella capitale c’è poco spazio per persone come Arthur Grigoryan. Questa è la terra della borghesia cresciuta in Occidente, causa il genocidio e la diaspora del XX secolo. Eppure, c’è un filo rosso che lega Jermuk e Erevan: la rivoluzione.

MARIA TATISIAN è una giornalista armena cresciuta in Canada e caporedattrice di EVN Report. I muri della redazione sono tutto un collage sui moti del 2018. Parlando di Amulsar dice: «È come se avessimo detto che non si può venire a sfruttare e saccheggiare l’Armenia».

A poche centinaia di metri c’è la sede del centro di ricerca Socioscope. Secondo la sociologa, Arpy Manusyan, «il caso Amulsar è connesso a due questioni più ampie: da un lato, alla pressione che l’Armenia subisce dalle corporation internazionali; dall’altro, alla necessaria definizione di un modello sviluppo alternativo all’estrattivismo».

SARÀ PER QUESTO che Nikol Pashinyan, eroe popolare durante la rivoluzione e oggi primo ministro, non trova una quadra. Dapprima ha criticato i blocchi; poi ha attaccato la multinazionale. Infine, ha commissiona uno studio a Elard, una no-profit libanese, per riesaminare le analisi di impatto condotte da Lydian Ltd.. Il risultato? Ci sono dei rischi, ma il progetto è fattibile.

Amulsar, posto di blocco numero 2. Sul tetto,la bandiera dell’Armenia. Foto di Karapet Karo Sahakyan

 

Anna Shahnazaryan è la leader del Fronte ambientale armeno (Aef), la principale organizzazione che appoggia gli occupanti. Seduta di fronte a una mappa del paese, spiega: «Dal monte Amulsar originano numerosi affluenti del lago Sevan (la principale fonte d’acqua dell’Armenia, ndr). E uno dei rischi legati alla costruzione della miniera è quello del drenaggio di roccia acida (un fenomeno dovuto all’interazione tra acqua e rocce cariche di solfati, ndr)». Secondo Shahnazaryan, «la miniera inquinerebbe l’intera regione».

IL PROBLEMA era stato sollevato dalla stessa Lydian Ltd. E la multinazionale ha anche proposto una soluzione che prende il nome di encapsulation. Ma un’analisi indipendente, pubblicata a inizio 2018, ne ha contestato l’efficacia.

Al manifesto il vice presidente di Lydian Armenia, Armen Stepanyan, ha detto che gli studi di impatto forniti dalla multinazionale, «sono le prime e uniche [nella storia del paese] a essere state riconosciute dall’International Finance Corporation (Ifc, organizzazione internazionale legata alla Banca mondiale che offre consulenza su progetti in paesi in via di sviluppo) e dalla Ebrd».

Nonostante il report Elard abbia dato luce verde e i tribunali amministrativi del paese abbiano ordinato la rimozione dei blocchi, le barricate continuano, anche quando fuori la temperatura raggiunge i -20°C.

«Se Pashinyan ordinerà la rimozione, accorrerà l’intera città di Jermuk e chiunque abbia una coscienza sociale. Questo caso non riguarda soltanto la regione di Vayots Dzor. E nemmeno esclusivamente l’Armenia. È una questione globale», afferma Grigoryan.

MA IL PRIMO ATTORE ad aver acceso i fari internazionali è stato proprio Lydian Ltd.. Nel marzo 2019, prima della pubblicazione del rapporto Elard – e tramite due filiali create in Canada e nel Regno unito –, la multinazionale ha notificato il governo riguardo il potenziale avvio di una causa presso un Tribunale internazionale per la risoluzione delle dispute tra stati e investitori (Isds).

«Si parla di una multa potenziale tra gli uno e i due miliardi di euro», spiega Aleksandr Khachaturyan, avvocato, ex-direttore del Centro armeno per le iniziative strategiche e socio di TK & Partners. La somma equivarrebbe a più di metà del bilancio statale.

Eppure, per Khachaturyan il problema è un altro: «I danni vanno al di là del costo monetario. Gli investitori che oggi considerano il paese come una potenziale destinazione analizzeranno questa storia». Shahnazaryan (Aef) non ha dubbi: «Quella di Lydian è una strategia tipica delle grandi aziende per estorcere risorse ai paesi in via di sviluppo». Lydian Ltd. ha creato le filiali in maniera strumentale? A detta di Stepanyan (Lydian Ltd.) «l’azienda potrebbe avere più di una ragione per effettuare cambiamenti strutturali». I costi sopraggiunti a causa dei blocchi sarebbero pari a «101 milioni di dollari».

Da Pashinyan arriva un silenzio assordante. O quasi. A febbraio di quest’anno, in visita a Berlino, il primo ministro ha detto: «Se i rischi ambientali sono gestibili appoggeremo il progetto». E un mese prima: «Non ci sono ragioni legali che giustificano i blocchi». Ma per Manusyan (Socioscope), il caso di Amulsar è un «conflitto emblematico della fase post-rivoluzionaria».

Amulsar dimostra che in questo paese «è ancora necessario combattere per i propri diritti». La miniera «ha diviso la società civile». «Prima tutti pensavano che Pashinyan avrebbe ascoltato i movimenti». Gli stessi che lo hanno portato al potere. Ora è tutto meno chiaro.

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Il business estrattivista di Yerevan

Il business delle miniere in Armenia risale alla seconda metà del XVIII secolo. Secondo dati relativi al 2017, il paese ha assegnato licenze per attività estrattive a più di 400 aziende; 28 di queste ultime riguardano metalli. Il settore impiega circa 10mila persone, mentre il salario medio si aggira sui 700 dollari (il doppio della media nazionale). Nel 2016, la quota di pil nazionale creato dal settore è stato pari al 2,6 per cento, a fronte di una quota di export industriale del 40%.