Otto italiani su dieci (l’81,9%) cercano un impiego tra amici e parenti. Grande è la sfiducia nel collocamento pubblico e privato. Solo uno su quattro si rivolge al primo. Ancora peggiore è il risultato delle agenzie per il lavoro private (interinali). Solo il 14,4% di chi cerca lavoro dichiara di rivolgersi ad esse, a fronte del 32,9% della Francia e del 21% del Regno Unito. In Germania la percentuale è al 12,7.

SECONDO L’EUROSTAT la situazione, già nota e strutturale, è nettamente peggiorata negli ultimi dieci anni. Nel 2007, prima della crisi economica, la percentuale di chi cercava un impiego tra le relazioni amicali e le conoscenze sociali era il 74%. Il distacco con gli altri paesi europei è abissale: in Germania il lavoro è trovato in questo modo dal 38,1%, nel Regno Unito dal 45,1%, in Francia dal 61,9%. La media dell’Ue a 28, riferita al secondo trimestre, è al 68,9%.

UN DATO ALTO che attesta una tendenza di fondo: il lavoro, pagato sempre peggio e con sempre meno tutele, è cercato dappertutto usando le reti informali. In Italia lo si fa di più. Non siamo gli unici, ma siamo i peggiori in una tendenza organica che riguarda tutto il mercato del lavoro. Dunque non c’è una volontà diabolica da parte di qualche soggetto cattivo, ma un assetto strutturale rispetto al quale una «riforma» come il Jobs Act non è riuscita, né forse riuscirà, a apportare un significativo cambiamento. A due anni e mezzo dal suo varo e a un mese e mezzo dalle elezioni del 4 marzo, questo elemento dovrebbe essere valutato ai fini di un bilancio di questa esperienza sghemba. Il suo unico «successo» non è dovuto al «contratto a tutele crescenti», simbolo della riforma, ma alla «riforma» Poletti che ha cancellato la «causale» nei contratti a termine producendo una moltiplicazione iperbolica del nuovo precariato. Volevano «risubordinare» il lavoro, sono riusciti a precarizzarlo ancora di più. Una catastrofe politica a cui i protagonisti, Renzi e il Pd, non sembrano prestare attenzione. Parlano d’altro.

IL RIMEDIO contro l’inesistente «collocamento» in Italia doveva essere la «seconda gamba del Jobs Act», ovvero l’agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) creata nel 2015 dalla famigerata «riforma» renziana. L’agenzia, diretta dal bocconiano Maurizio Del Conte, ha avuto una gestazione lunga, incompleta e faticosa. È stata parzialmente bloccata dalla clamorosa sconfitta di Renzi al referendum costituzionale del 4 dicembre. A questa «riforma» era stata affidato il compito di risolvere la concorrenzialità tra Stato e Regioni sul collocamento. Non è successo. E l’Anpal continuerà a navigare in queste acque.

SUL PROBLEMA è intervenuto, di par suo, il ministro del lavoro Poletti. «Il dato Eurostat ha una sua storia» ha premesso. E poi: «Bisogna guardare a un elemento che ha un tratto di valore positivo: il rapporto di lavoro è anche di fiducia». E «quindi la conoscenza, la relazione, è uno degli elementi che definisce questo passaggio». È mancato poco che Poletti evocasse la «partita di calcetto» come fece in una memorabile dichiarazione del 28 marzo 2017.

«NEL LAVORO si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula» disse. Il «valore positivo» della «fiducia» lo si conquista, in fondo, tirando due calci tra maschi con chi può firmare un contratto a termine che dura tre mesi. O anche meno. Non lo ha fatto, si sarà morso la lingua. Bisogna rendergli il merito. Ormai, a 40 giorni dalla fine del suo mandato, un certo apprendistato espressivo l’ha fatto anche il ministro.

IN PRESENZA delle evidenti difficoltà, a Poletti è rimasto solo un auspicio: “L’importante è che il pubblico sia in grado di mettere a disposizione competenza, capacità e infrastruttura – ha detto – Le abitudini cambiano solo se sei in grado di offrirla questa opportunità. E la strada avviata va verso questa direzione, su questa si dovrebbe accelerare”. L’attesa potrebbe risultare senz’altro vana.

SUL TERRENO resta l’eredità del Jobs Act che ha rispolverato concetti come «riqualificazione» o «ricollocamento» dei disoccupati inserendoli in una nuova – questa sì – struttura di monitoraggio, controllo e governo: l’Anpal. È a questa struttura che Poletti si riferisce nel suo discorso volontaristico e di circostanza. I dati Eurostat dimostrano che le tecnologie neoliberali che intendono governare la forza lavoro attraverso il workfare o la «formazione continua», sia pure incomplete e allo stato del tutto iniziale, non sono al momento riuscite a riscuotere la «fiducia», elemento fondamentale in un’economia fondata sulla promessa del lavoro, sulla morale individuale e sull’impresa di se stessi.