Dalla giacca e cravatta dei sarariman ai kimono delle geisha. Quando si pensa alla tradizione giapponese, è difficile non pensare a Kyoto. Per i vicoli del quartiere storico di Gion, tra le case in legno sulla sponda del fiume Kamogawa non è raro incontrare figure avvolte negli abiti tradizionali giapponesi. Kyoto è famosa per le migliaia di templi e santuari, 17 dei quali inseriti nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Senza dimenticare l’artigianato locale, con i tessitori di kimono e i produttori di saké, il vino di riso, a farla da padroni.

Sarà per questo che quando si arriva a Kyoto, tralasciando le strutture moderne della nuova stazione e della torre della televisione «ti senti sempre straniero». Così scriveva tempo fa Pico Iyer, uno dei più grandi narratori contemporanei di viaggio. Iyer descriveva bene le atmosfere uniche della città in cui ha deciso di trasferirsi ormai oltre un quarto di secolo fa, fuggendo da Manhattan alla ricerca di «semplicità e silenzio».

Kyoto ha conservato gran parte del suo fascino originale, di città antica e capitale culturale. Immagine che fa dimenticare ai più il ruolo di Kyoto come importante centro dell’innovazione su scala nazionale e internazionale. «Non solo – scriveva Iyer – [Kyoto] è riuscita a mantenere la sua antica eleganza, ma ha saputo generarne di nuova».

Qui infatti alla fine dell’Ottocento sono stati usati i primi tram del Giappone, qui sono stati fondati i primi studi cinematografici. Qui in anni più recenti si è sviluppato il comparto informatica: Nintendo e Kyocera, due importanti brand del settore, mantengono i loro quartieri generali in questa città da 1 milione e mezzo di abitanti, inglobata nella grande area metropolitana del Kansai, tra Osaka e il porto di Kobe. Nintendo soprattutto, partita come manifattura di carte da gioco, è arrivata addirittura a insidiare il primato tecnologico del colosso tokyota Sony e ad imporsi sul mercato globale.

L’artigianato locale ha poi sempre mantenuto un peso rilevante. Tra le vie dello storico quartiere delle manifatture tessili, Nishijin, nel distretto di Kamigyo, si continua a innovare sulla tradizione. Caso esemplare quello di una manifattura artigianale che, unendo materiali come il bamboo a tessuti impermeabili, ha messo a punto un ombrello in grado di proteggere da acqua e luce solare al tempo stesso.

A Kyoto, per certi versi, si è rinunciato al concetto della metropoli asiatica, frenetica e scintillante, a tratti soffocante. Almeno finora. E non è un caso che negli ultimi anni gli stranieri siano attirati da questa città e abbiano iniziato anche a investire nel mattone. O meglio, nel tassello di legno.

Molti stranieri, gaijin per dirla alla giapponese, notava a fine giugno scorso il Nikkei Shimbun, primo quotidiano economico nazionale, vengono qui a trovare un contatto diretto con la tradizione giapponese. Lo fanno preferendo le caratteristiche machiya, le abitazioni tradizionali in legno quasi tutte di epoca Edo (1603-1868) e Meiji (1868-1912), agli alberghi. Nei lunghi corridoi di queste case dei quartieri centrali della città sempre più stranieri, in particolare americani ed europei, soggiornano per brevi periodi o vivono in pianta stabile.

Se oggi esiste questa possibilità è merito soprattutto delle associazioni di quartiere che negli anni hanno difeso un patrimonio unico arrivando perfino a convincere le autorità cittadine dell’importanza di non perderlo.

Risparmiata dai bombardamenti americani per il suo inestimabile patrimonio artistico-culturale, Kyoto non ha subito un’opera di ricostruzione integrale come altre grandi città del Paese-arcipelago. Tuttavia, a partire dagli anni ’80, qualcosa è cambiato: la bolla economica ha colpito anche qui. Mancando una vera e propria legislazione sulla protezione delle abitazioni storiche, molte machiya, che ospitavano tradizionalmente una o al massimo due famiglie sono state demolite e rimpiazzate da complessi abitativi più grandi e da condomini.

Il che ha portato con sé non solo danni incalcolabili dal punto di vista della perdita di patrimonio storico, ma anche e soprattutto dal punto di vista della disintegrazione delle comunità locali. Soprattutto se si considera che, come notava Fujitsuka Yoshihiro della Osaka City University in un suo articolo sulla «geografia umana» dell’antica capitale giapponese, nel 1978 le case di legno risalenti a prima della guerra erano il 50 per cento del totale delle abitazioni cittadine.

Oggi Kyoto ha tutta l’intenzione di non sacrificare il proprio patrimonio. Conviene in termini di immagine, perché il turismo è una delle voci principali del bilancio cittadino. E le machiya sono parte fondamentale di un business che ogni anno porta qui circa 50 milioni di persone. Certo Kyoto non è rimasta immune alla globalizzazione. Come in tutte le grandi metropoli giapponesi, anche Kyoto è un assembramento di lunghe vie dello shopping al coperto, Starbucks, McDonald’s e Kentucky Fried Chicken. Ma la protezione delle machiya da qualche anno a questa parte ha richiamato l’attenzione sulla possibilità di un nuovo modello di sviluppo cittadino, più sostenibile rispetto alla demolizione di intere aree e alla “rilocazione” forzata dei suoi abitanti.

A questo pensa, ad esempio, il Fondo Machiya Machizukuri, che si occupa proprio di difendere le machiya dai progetti di riqualificazione selvaggia e dall’abbandono dei residenti storici tra impennate dei prezzi dei terreni e tasse sulla proprietà. E si propone di proteggere le machiya già esistenti attraverso la sensibilizzazione della cittadinanza. L’obiettivo è raccogliere fondi per interventi di restauro e messa a norma antisismica e antincendio delle vecchie case di legno del centro storico.

«La conservazione delle machiya – spiegava tempo fa al Japan Times Otani Takahiko, docente di architettura all’Università femminile di Mukogawa – deve essere sostenuta soprattutto dal volere delle persone che vi abitano». Oltre il 40 per cento delle vecchie case di legno è già stato rimpiazzato da palazzi moderni, centri commerciali, garage e parcheggi. Nel solo quinquennio 1998-2003, oltre il 13 per cento delle machiya ancora esistenti è stato abbattuto.

Un motivo importante dell’abbandono delle vecchie case di legno per quelle nuove è proprio legato alla questione sicurezza: la convinzione che in caso di grande terremoto una casa di nuova costruzione sia più sicura è dura a passare. A ciò si aggiunga l’importanza che il governo Abe riserva alle grandi opere pubbliche e al settore immobiliare, che ancora una volta è stato identificato come traino della ripresa, se ci sarà.

Ad oggi per i proprietari di una machiya la legislazione rende infatti più facile abbattere e ricostruire ex novo piuttosto che mettere in sicurezza le strutture già esistenti. Risultato: le machiya rischiano di scomparire a un ritmo più sostenuto che in passato. E con loro rischia di andarsene il fascino unico di una città, ancora oggi alla ricerca di un modo per conciliare la tradizione con l’innovazione.