Gli insulti scagliati dal palco di Treviglio contro in ministro Kyenge sono costati a Calderoli – che adesso è indagato dalla procura di Bergamo con l’accusa di diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale – due denunce. Una arriva dal Codancons, l’altra da Paolo Calvano e Simone Merli, rispettivamente segretari provinciale e comunale del Pd di Ferrara. Non che la cosa turbi più di tanto il vicepresidente del Senato, probabilmente convinto, non senza ragione, che tutto finisca nel nulla: «Con due denunce a mio carico, l’indagine è un atto dovuto», ha dichiarato. Intanto, però, un’altra leghista, Dolores Valandro (già espulsa dal partito) è stata condannata per direttissima a tredici mesi di reclusione e 13mila euro di risarcimento per un’inqualificabile frase postata nei giorni scorsi su Facebook. Il bersaglio era ancora una volta il ministro Kyenge: «Mai nessuno che la stupri», aveva scritto la consigliera del Carroccio sopra una foto della Kyenge a commento – chissà perché – di un episodio di violenza sessuale avvenuto a Genova.
«Era una battuta», si era poi giustificata la Valandro, con la speranza (magari anche sincera e per questo più assurda) di rimediare all’irrimediabile. Il declassamento dell’insulto diffamante a battuta è la linea difensiva che, all’ombra del carroccio, unisce incitazioni allo stupro e deliri zoomorfi. Tutte «battute», che, però, non solo restituiscono un’immagine tutt’altro che divertente dei rappresentanti delle istituzioni del nostro paese, ma, proprio perché provengono da cariche istituzionali hanno effetti culturalmente disastrosi, sdoganando atteggiamenti razzisti.. Qualcuno, tuttavia, a queste «battute» risponde a tono: «gente come Calderoli e Borghezio» – si è sblianciato in un intervento al programma La zanzara di Radio 24 il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, «dovrebbero dimettersi da umani, da uomini, perché dimostrano dicendo queste cose che non hanno coscienza, e la coscienza è la molla che ha trasformato le scimmie in umani, quindi sono rimaste scimmie».
Il ministro Kyenge, suo malgrado protagonista della recrudescenza del dibattito sul razzismo italiano che in questi giorni sta accendendo la stampa dentro e fuori dal nostro paese, la prende più serenamente: «Il rispetto è importante nella comunicazione ma Calderoli ha fatto un passo importante scusandosi» anche se «le offese danneggiano più l’Italia che me». E se al danno causato dagli insulti di Calderoli si aggiunge quello dello sproloquio di Bossi il quadro grottesco di questa vicenda è completo: «La Kyenge è stata scelta perché nera». La replica del ministro è stata fulminante: «Chi mi ha nominato – ha osservato Kyenge – ha avuto invece lungimiranza e intelligenza di far vedere qual è e quale sarà l’immagine dell’Italia. Ossia quella un paese con persone con diverso colore della pelle ma che si sentono italiane». E in effetti, con buona pace dei leghisti, questo è il punto. E se al sentimento si appartenenza si aggiungesse anche il passaporto, sarebbe un primo importante passo verso l’integrazione e contro il razzismo.
Certo, non è facile convincere i leghisti e Calderoli, che tra una scusa e un mazzo di fiori, promettono ad ottobre battaglia contro lo ius soli, e di integrazione e rispetto ne vogliono saper eil meno possibile. E fanno male, perché la performance razzista dal palco di Treviglio potrebbe essere una gatta da pelare per il vicepresidente del Senato, soprattutto se sul reato di diffamazione per il quale è indagato dai Pm bergamaschi Dettori e Rota, graveranno anche le due aggravanti richieste. Una, appunto, è quella dell’odio razziale. L’altra, come si legge nella denuncia stilata dall’avvocato Anselmo, ptrebbe essere, l’incitazione alla discriminazione razziale «considerando l’altro ruolo istituzionale ricoperto da Calderoli e l’inevitabile consapevolezza da parte del vicepresidente del Senato che le sue parole potessero suggellare nel pubblico che ascoltava (e in quello più ampio raggiunto dai media) la legittimazione alla discriminazione razziale». In altre parole: il vicepresidente del senato non può permettersi il lusso di parlare a vanvera.