Le elezioni parlamentari, attese da oltre un anno, non indicano la via d’uscita dalla crisi politica, istituzionale ed economica che da anni attanaglia il Kurdistan iracheno. Alle urne, domenica, si sono presentati il 57,8% degli aventi diritto, un tasso di astensionismo atteso vista la disillusione e la crescente critica popolare verso la tradizionale classe dirigente della regione.

Secondo fonti del Kdp citate da The National, il Kdp dei Barzani avrebbe ottenuto 42 seggi su 111 (quattro in più degli attuali), doppiando il principale sfidante, il Puk, che sarebbe fermo a 20. In attesa dei dati ufficiali, resta il clima di tensione in cui si è svolto il voto: a urne ancora aperte il Puk aveva già detto di non volerne riconoscere il risultato a causa di presunti brogli per poi ritirare l’accusa, raccolta però dai partiti minori di opposizione, da Gorran agli islamisti.

In contemporanea, da Erbil (la capitale nonché roccaforte del clan Barzani) partiva la contro-denuncia: a Suleimaniya, «feudo» della famiglia Talabani, a capo del Puk anche dopo la morte del suo fondatore Jalal, gli scrutatori sarebbero stati cacciati da alcuni seggi da uomini armati legati al partito. In realtà, osservatori internazionali e giornalisti hanno riportato di identiche irregolarità un po’ ovunque.

Il recente scambio di accuse di tradimento tra i due gemelli diversi Kdp e Puk e la decisione del Kdp di candidare alla presidenza dell’Iraq (per legge occupata da un curdo) un proprio uomo invece di appoggiare quello «unitario» del Puk (pratica iniziata nel post-Saddam con Jalal Talabani, mentre Masoud Barzani si garantiva la presidenza del Kurdistan iracheno) sono i segni di una frattura seria nella coalizione Puk-Kdp al governo dal 2013.

Il timore di un pericoloso confronto interno si sovrappone a quello, certo, dell’impossibilità di un reale cambiamento. Ai vertici resterà l’identico sistema clientelare che ha provocato l’attuale crisi, politica e di legittimità delle istituzioni regionali, ma anche economica e sociale.

Dal 2014 la regione, considerata un’economia florida e in crescita, attraente per gli investitori stranieri, è crollata provocando il peggioramento drastico delle condizioni di vita della popolazione, lo schiacchiamento della classe media, la perdita di potere d’acquisto a causa dell’inflazione, mesi di stipendi non pagati per i dipendenti pubblici e i conseguenti scioperi di insegnanti e medici, una disoccupazione giovanile al 20% (altissima in una regione dall’età media bassa) e la carenza dei servizi pubblici, soprattutto sanitari.

Una crisi dovuta alla corruzione tentacolare in un sistema di monopolio politico (in cui la gestione del potere passa per il clan), al fallimentare tentativo di importare il «modello Golfo», al peso della guerra contro l’Isis e all’arrivo di due milione di profughi siriani e sfollati interni iracheni, su una popolazione totale di 5,7 milioni di persone.

Erbil è sul filo: il voto di domenica è giunto a un anno dal 25 settembre 2017, dal referendum sull’indipendenza da Baghdad, vinto con il 93% di sì ma mai realizzato tanto da scatenare nei mesi successivi proteste e scontri in piazza, con manifestanti uccisi e sedi del Puk e del Kdp date alle fiamme. Le piazze chiedevano le dimissioni del governo e il ritorno alle urne, arrivato però solo un anno dopo.

E se all’interno la tensione saliva, fuori Erbil faceva i conti con un punitivo isolamento internazionale: mentre le potenze amiche – compresa la Turchia – hanno rigettato la legittimità del voto e sospeso i collegamenti aerei con Erbil, il governo centrale di Baghdad ha lanciato una dura campagna militare che gli ha permesso di riprendere i territori contesi con il Kurdistan iracheno, a partire dalla ricca Kirkuk.