Alfred Kubin, 1949, ritratto di Robert Halmit, Alamy Foto Stock

 

«Nessuno, in fondo, può sfuggire al proprio temperamento, esso determinerà sempre ogni manifestazione della sua vita. Nel mio, decisamente malinconico, la gioia e il dolore si trovavano sempre assai vicini». Così riassume le ragioni della sua arte Alfred Kubin (1877-1959), illustratore di letteratura fantastica, disegnatore visionario nel solco di Goya, Redon, de Groux e Rops.
Nato nella Boemia austro-ungarica e maturato culturalmente a Monaco di Baviera frequentando i gruppi Maultrommel, Sturmfackel e Blaue Reiter, Kubin appartiene alla folta schiera di artisti che nel trapasso epocale tra XIX e XX secolo hanno contribuito alla rappresentazione della vita psichica, dallo spleen alla rêverie, dall’abisso di paure senza nome alla liberazione delle pulsioni e degli istinti primordiali. Alfred chiamava «psicografia» la propria attitudine a registrare come un sofisticato strumento meteorologico le recondite oscillazioni dei suoi stati d’animo, traducendole in uno stile frammentario «più scritto che disegnato». Per allestire le sue bizzarre baraonde amava rovistare tra le chincaglierie del repertorio decadentista e simbolista, raccattando con entusiasmo suggestioni disparate da rielaborare poi con un metodo di liberi accostamenti che tanto piacerà ai surrealisti.
Convinto che l’ispirazione fosse il dono di un’entità superiore o il sintomo di un’oscura forza interiore, ha ammesso di aver capito le possibilità espressive del disegno grazie a Parafrasi sul ritrovamento di un guanto (1881), ciclo di acqueforti di Max Klinger. «Lo vidi e fremetti di piacere», ricorda. «E allora d’improvviso traboccò in me un vero torrente di visioni e di immagini in bianco e nero».
Kandinskij lo ha definito «profeta del tramonto»; e in effetti, nelle scenette macabre eseguite a penna sul verso di vecchie mappe catastali, il fosco quadro del presente si sovrappone alla catastrofe permanente del suo universo individuale. Ne scaturisce il presagio del crollo, l’incubo del disfacimento fisico e morale, in una spirale di rovina e rigenerazione dove la cosa più spaventosa non è la morte, ma la mancanza di una fine. «Continuai a variare in maniera sempre nuova l’unico malinconico tono dominante, la miseria della solitudine e la lotta con l’incomprensibile».
Data la natura dei suoi lavori, Kubin è stato ed è spesso oggetto di interpretazioni psicoanalitiche fin troppo proiettive; d’altronde, lui stesso ha incoraggiato tale approccio fornendo numerosi spunti utili per una patografia. La principale fonte di notizie su Alfred Kubin è infatti proprio Kubin, tramite i suoi scritti. L’artista boemo si è applicato con zelo alla composizione di una cornice narrativa entro cui traguardare la propria produzione grafica e pittorica, tanto che l’autobiografia va considerata elemento centrale nella sua prassi artistica. Kubin ha adattato la biografia all’arte ed è tornato più volte a raccontarsi aggiornando la sua vicenda personale a ogni nuova occasione, disseminandola di esche.
La prima importante mossa di questa strategia mitopoietica è Die andere Seite, romanzo uscito per Georg Müller nel 1909. Qualche anno prima Kubin si era stabilito nell’amena località di Zwickledt, nell’Alta Austria. Qui lo aveva seguito la moglie Hedwig, vedova del banchiere Gründler, della quale la Lenbachhaus custodisce tuttora un elegante ritratto realizzato proprio in quel periodo da Jawlensky. Hedwig era sorella di Oscar A.H. Schmitz (1873-1931), sodale di Alfred ai tempi della bohème bavarese. Oggi nell’oblio, Schmitz è stato uno scrittore brillante che s’interessava di esoterismo, erotismo, morale e psicanalisi, autore tra le altre cose di ben tre autobiografie, di cui una edita da Müller nel 1926 con il titolo Dämon Welt. A lui Kubin ha fatto leggere le bozze di Die andere Seite; e a lui probabilmente doveva più di un’intuizione.
Benché la storia assurda e irrazionale del romanzo incorpori molti elementi del vissuto di Kubin, già dalla seconda edizione (1917) il libro è provvisto di un’appendice biografica – omessa nella traduzione italiana (L’altra parte, Adelphi 1965). Questa appendice viene successivamente riutilizzata in altre opere: nel 1926, ad esempio, diventa una «auto-presentazione» introduttiva a un album di centotrenta tavole illustrate pubblicato da Carl Reissner di Dresda con il titolo Dämonen und Nachtgesichte. Quando poi il volume cambia nome in Mein Werk. Dämonen und Nachtgesichte, si annuncia in frontespizio come raccolta di illustrazioni con annessa un’autobiografia estesa al 1931. Nell’anno del decesso dell’artista, infine, l’editore Piper ristampa il testo in forma ulteriormente riveduta, corredato da una selezione di ventiquattro disegni estratti da serie differenti rispetto all’album del 1926. La versione italiana uscita nel 1961 per Il Saggiatore, Demoni e visioni notturne, deriva da questa edizione ridotta.
Quanto ai contenuti, Demoni e visioni notturne è sostanzialmente la candida esposizione delle vicissitudini di Kubin, inframezzata dall’autodiagnosi delle sue angosce. Come già nel romanzo, l’artista parla di sé in prima persona descrivendo i tormenti di un bambino emotivo che, scosso dalla prematura perdita della madre e dalla scarsa empatia del padre, sviluppa un’indole incline alla depressione. Il giovane Alfred crea quindi un regno onirico fondato sul gusto dell’orrido e del misterioso, e nel gioco crepuscolare della fantasia gli echi dell’infanzia si confondono con riflessioni esistenziali desunte dalla lettura di mistici e filosofi. La narrazione è un susseguirsi di lutti, crisi nervose e deliri: nel 1896 fallisce il suicidio sulla tomba della madre, nel 1903 perde la fidanzata a causa di una febbre tifoide, nel 1908 si getta nella stesura di Die andere Seite per reagire alla morte del padre, nel 1916 si converte dieci giorni in asceta buddista a seguito della scomparsa dell’amico Franz Marc.
Traspaiono reticenze e deformazioni: Kubin filtra pensieri, parole e fatti con calcolata enfasi e una discreta dose di compiacimento, in modo da presentare di sé un’immagine il più possibile aderente ai suoi perturbanti disegni. Nulla di nuovo. Da secoli, gli artisti esibiscono gli aspetti del carattere che meglio rispondono alle idee correnti sul talento; e i commentatori in qualche modo trovano nella personalità degli artisti quel che soddisfa le loro aspettative. «Con ciò che sono venuto finora raccontando credo di aver risposto per quanto è possibile a una domanda che mi sono sentito fare tante volte, come sono arrivato a creare queste opere. Spero soprattutto di aver mostrato chiaramente come in fondo fosse sempre la stessa forza che nella fanciullezza mi portò ai sogni e alle monellerie, più tardi alla malattia, e infine all’arte».
È indubbio che la sua è stata un’esistenza funestata da molteplici disgrazie; ciononostante ha saputo trarne profitto mediante i disegni e la scrittura. A un occhio non superficiale appare subito evidente il contrasto tra le opere visionarie e la vita ordinaria di un ipocondriaco ossessionato dalla paura della povertà, che senza slanci licenziosi o ribelli ambiva alla gratificazione di sicurezze borghesi. Kubin ha attraversato indenne e quasi ignaro due guerre mondiali, e ha avuto una lunga carriera felice, non priva di riconoscimenti, dalla personale alla Galleria Bruno Cassirer di Berlino nel 1902 alla sala presso la XXVI Biennale di Venezia nel 1952. Per altro, è stato decisamente longevo, sebbene nelle sue memorie abbia celebrato a più riprese e con largo anticipo le proprie esequie.
Klee gli rimproverava di essere «vivo a metà», Kandinskij lo incitava a non sprofondare in un cupo rimuginio, Kafka ne menzionava la fissazione per i lassativi. Nel suo «narcisismo ignobile e innocente», Kubin ha continuato a vagare nei territori del sogno per assecondare al contempo una necessità, una terapia e un’astuzia. «Dovunque andassi e qualsiasi cosa facessi, mi sforzavo di intensificare le mie gioie e i miei dolori, e in segreto ridevo di entrambi».