Sono passatiquasi quarant’anni da quando Art Spiegelman, con il suo Maus, ha rivoluzionato il fumetto, dimostrando che i comics sono in grado di affrontare questioni tragiche e complesse come l’Olocausto con altrettanta – se non maggiore – efficacia della letteratura non grafica. È a questa tradizione che attinge il graphic memoir di Nora Krug, Heimat (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, pp. 288, € 19,00), articolato come una profonda riflessione personale e culturale sul passato hitleriano della nazione tedesca.

Nata a Karlsruhe nel 1977, Krug è cresciuta ascoltando i racconti ellittici dei genitori e sfogliando i vecchi quaderni in cui lo zio, studente delle medie, disegnava svastiche e elaborava temini in cui gli ebrei sono paragonati a funghi velenosi. Per sfuggire al senso di colpa, alla vergogna e alla inadeguatezza nei confronti del proprio passato famigliare, a diciannove anni l’autrice si trasferì a Liverpool e poi a New York, dove vive insegnando l’arte della illustrazione. Ma sembra che dodici anni in America non siano bastati a cancellare la «vergogna tedesca»: così, Krug si è spinta nei luoghi di origine della famiglia per compiere ricerche d’archivio e interrogare la gente del luogo, nella speranza di scagionare, per quanto possibile, i propri antenati.

Entrando per la prima volta da adulta nella stanza dove era cresciuto il padre, scrive di avere avvertito «un improvviso dolore, superficiale ma intenso e divorante come un taglio aperto dalla carta, perché anche i ricordi ereditati fanno male». La sua è dunque una esperienza basata non su veri e propri ricordi, bensì su quelle proiezioni immaginative capaci di innescare un transfer intergenerazionale attraverso cui i figli fanno propri i traumi vissuti dai genitori o dai nonni: esperienze descritte da Marianne Hirsch come «postmemoria», una forma particolarmente potente di riminiscenza, fondata sulla connessione emotiva con un passato che non è stato vissuto direttamente, ma è «plasmato da storie che abbiamo letto e sentito, da conversazioni che abbiamo avuto, da paure e fantasie associate a persecuzione e pericolo». È significativo che Marianne Hirsch abbia elaborato il concetto di postmemoria leggendo Maus e riflettendo sul fatto che sono proprio le immagini con cui i più giovani stabiliscono un forte rapporto emotivo (album di famiglia, disegni, cartoline, memorabilia) a creare un ponte con chi ha vissuto l’Olocausto.

La associazione stretta tra parole e immagini che sta alla base del fumetto, insieme alla dimensione infantile che a tutt’oggi le è legata, ne fanno un mezzo particolarmente indicato a riprodurre i processi mentali della postmemoria. Forse anche per liberare il genere dagli stereotipi formali, Krug sceglie di non impiegare nel suo graphic memoir personaggi che dialogano con le nuvolette, rompendo anche con la classica divisione della pagina in vignette sequenziali: in Heimat documenti ufficiali e lettere private, fotografie, riproduzioni realistiche e disegni stilizzati sono giustapposti senza soluzione di continuità a formare un album di famiglia, un collage di appunti e ricordi che insegue lo zigzagare delle meditazioni della protagonista.

Scrittura infantile, ricordi remoti
I disegni color pastello e gli acquerelli sbiaditi ricordano il tratto infantile o le illustrazioni di un libro di fiabe, così come il carattere tipografico riproduce la scrittura dei bambini nei quaderni scolastici. Frammento dopo frammento, anche le foto riprendono vita attraverso il racconto relativo al nonno materno Willi, autista di un commerciante ebreo e membro del partito nazista, e attraverso le vicende dello zio paterno Franz Karl, arruolatosi nelle SS e caduto in Italia. La struttura dell’opera non mira a rendere coerente, cronologico e comprensibile ciò che è stato, bensì a riprodurre i processi della memoria attraverso la ricostruzione di un passato che non può non restare incompleto, e quindi inconoscibile.

Il tentativo di venire a patti con la storia sociale, politica e culturale della nazione di origine senza rimuoverne gli aspetti meno lusinghieri passa attraverso una riflessione sulle «cose tedesche» – oggetti a cui la protagonista è legata emotivamente e che la aiutano a ricompattare la propria identità, oltre che a rassicurarla: il cerotto Hansaplast è associato alla figura della madre come «la cosa più sicura al mondo»; la colla Uhu, la borsa dell’acqua calda e il raccoglitore ad anelli Leitz garantiscono efficienza, durata e affidabilità – caratteristiche tipicamente collegate allo spirito tedesco. Tuttavia, Krug è attenta a non trascurare i riverberi politici del termine Heimat: consapevole dei pericoli che derivano dall’appropriazione ideologica della retorica nazista, inserisce tra le tipiche «cose tedesche» il sapone Gallseife, che agisce contro le macchie più resistenti garantendo «la purezza originaria del tessuto», nella certezza che «le tue camicie verranno bianche come la neve».