«Quella bulgara e quella francese sono culture ambedue cristiane, con punti fondamentali in comune. In Francia, però, sono forse diventata più combattiva. C’è qualcosa di passivo nella gente dell’Est, una compiacenza nell’infelicità, si è infelici e lo si resta e nella Chiesa Ortodossa lo stesso canto liturgico è assai vicino alla lamentazione. In un certo senso quella è la cultura della lamentazione. (…) Io credo che non c’è mai morte della lingua materna e ciò che tento attraverso la psicanalisi, il lavoro letterario, lo stile, è una sorta di traduzione infinita. Come se traducessi in francese, senza fine, qualcosa di arcaico, remoto, e in maniera sempre più esatta…». Così, a chi scrive, venticinque anni or sono, in un’inevitabilmente piovosa Parigi primaverile, Julia Kristeva: bulgara, naturalizzata francese, ancora a metà strada del percorso che sarebbe culminato nel «Nobel delle scienze umane», il premio Holberg, ricevuto nel 2004 dalle mani del principe Haakon Magnus, di Norvegia. Un viaggio trionfale il suo, che ne La vita, altrove Autobiografia come un viaggio (Je me voyage. Mémoires nell’originale) – conversazione con Samuel Dock tradotta da Elisa Donzelli per Donzelli Editore (pp. X-262, € 24,00) – ci consegna con orgoglio ma anche forse eccessivi narcisismi: il volume è corredato da 27 fotografie come (forse) si addice al secolo e però aumentano le ridondanze. Kristeva infante, con la madre, il padre, a scuola, al liceo, con la sorella, con il marito, il figlio, gli amici intellettuali e politici da Roland Barthes a Chirac, a Vaclav Havel e a Parigi, New York, Praga, via via tutto il cursus honorum fino alla stretta di mano (simbolica? a testimoniare l’ecumenismo, o le convergenze, dei personaggi?) con Benedetto XVI. D’accordo, questa è la civiltà dell’immagine e Kristeva è un’intellettuale di tutto rispetto e, naturalmente, per quel che vale, ha tutto il mio (rispetto). Forse sarebbe stato il caso, proprio per quel «rispetto», di non trascinarla al livello di, che so: Madonna, lady Diana, Elton John?
Arrivata in Francia in un momento cruciale per quel Paese (la crisi del gaullismo e l’eclissi del sartrismo, le contestazioni studentesche, l’insorgere dello strutturalismo e nuove icone – Foucault, Althusser, Barthes, Lévi-Strauss, Lacan), Kristeva visse i mutamenti principalmente all’intero del gruppo «Tel Quel», la rivista al 44 rue de Rennes, diretta da Philippe Sollers, che avrebbe sposato. Conobbe, quindi, tutte le evoluzioni ideologiche del gruppo – da un marxismo non ortodosso («hegeliano», se è concessa l’aggettivazione), a un’ortodossia maoista cui seguirono tutt’altri allineamenti, Lacan il nuovo nord, poi l’uccisione del padre. Nel cuore di tanti stravolgimenti, Kristeva non deflesse mai dall’ammirazione per la persona (ma non al punto di ignorarne i limiti) di Simone de Beauvoir e «la rivoluzione del femminile» – come Donzelli sottotitola alcuni scritti di Kristeva sulla compagna di Sartre (Simone de Beauvoir, «Saggine», pp. 142, € 19,00), tradotti e pubblicati quest’anno.
Di Beauvoir, in qualche senso, Kristeva agli inizi cercò di ricalcare il ruolo e se quella scrisse Les Mandarins a lasciare testimonianza delle avventure socio-erotico-intellettuali del gruppo esistenzialista, la giovane bulgara scrisse I Samurai sul gruppo di «Tel Quel». Molteplici le possibili risposte alla domanda che non si può non porsi, chi mai fosse il daymo, il simbolico signore feudale, al quale questi bushi della cultura avevano giurato obbedienza. Forse nient’altro che un’idea astratta del «potere»? Non tanto simbolicamente, il ’68 anche questo era stato. E però non soltanto questo, per Kristeva. «Vivevo in Francia, mi imbevevo di cultura francese, avevo la fortuna di essere associata a correnti del pensiero francese che avevano fatto del corpo e del linguaggio il loro regno». E, «ne La Musica e le lettere (Mallarmé) afferma che ogni vocale, consonante, sillaba o parola è una ‘costellazione’, un ‘limite all’infinito’(…) Ho definito questa concentrazione un differenziale significante per invitare il lettore a leggere diversamente — come in un lancio di dadi e trasportato dal movimento dei sensi e del senso (…). Nella crisi dello Stato, del diritto, della religione, il linguaggio poetico opera un’autentica rivoluzione che rivela le logiche profonde della creatività». Interessanti le conseguenze di certe esperienze personali sulla sua lettura del reale. A Padova, gli affreschi di Giotto (ci dice) «mi hanno soggiogata. Uno studio sulla percezione del rosso e del blu nei bambini, che avevo appena letto, mi ha guidata nel tradurre quell’abbigliamento indagando il ruolo del colore nella rappresentazione rinascimentale del racconto evangelico». Avrebbero potuto aiutarla, forse con maggiori convincimenti, anche certe annotazioni antropologiche – ancora mezzo secolo fa, i primi anni posteriori alla tragedia della Nabka, il rosso e il blu erano colori correnti nell’abbigliamento tradizionale delle donne di Giordania e di una Palestina non ancora così islamizzata.
Semiologa,philosophe, comparatista letteraria, psicanalista sociale quindi con un bagaglio di esperienze umane che scavalcano gli schematismi di molti approcci universitari (è professore a Columbia, N.Y., e a Paris VIIème), erede per molti versi della grande tradizione formalista europea (i russi, la scuola di Vienna, le istanze linguistiche di Saussure) l’attività di romanziera di Kristeva s’è indirizzata verso l’apologo filosofico – Le Vieil Homme et les Loups; PossessionsMeurtre à Byzance; L’Horloge enchantée; testi spesso a tesi, per non dire didascalici, ma senza le ironie e autoironie di Luciano o l’autore del Candide.
Kristeva è colta, coltissima, e assai intelligente, va da sé – qualità che però non bastano quando si intende fare un passo oltre la belle écriture. Al riguardo, a metà XIX secolo e nel remoto New England, neppure Thoreau aveva dubbi e avrebbe ammaliato il giovane Proust. Un posto a parte merita Thérèse, mon amour, romanzo-biografia (?) che Kristeva incentra su Teresa di Ávila e dove l’invenzione della santa, per le esperienze psicanalitiche e di autoanalisi che l’autrice vi riversa, diventa un’appassionante, appassionata esplorazione di sé. (Kristeva, con straordinaria sincerità, in quel nostro incontro, venticinque anni or sono, parlando di sé : «Quando si ascolta un paziente si ascoltano romanzi: incompleti, falliti, non elaborati ma sempre il prodotto di un’immaginazione. Questa esperienza (…) mi è parso potesse autorizzarmi a parlare in prima persona»).
Almeno una parola sui «legami intertestuali» che Kristeva traduce con «interazione tra i testi» — il termine riferito non soltanto a un testo letterario ma nel senso più vasto della semiotica e le teorie della cultura, non c’è testo redatto che prescinda in assoluto da tutto ciò che è stato scritto prima. Il discorso, che Kristeva trascina verso nuovi orizzonti, ingloba, oltre alle istanze «formaliste», ipotesi di lettura avanzate, tra gli altri, negli anni esaltanti del Novecento, già dal T. S. Eliot di After Strange Gods e testimoniate, a livello compositivo, da Prufrock per non parlare della Waste Land.
Nel crocicchio di Saint-Germain-des-Prés anche le generazioni precedenti ai «samurai» avevano dato più di un’occhiata a quanto avveniva nella letteratura del domaine anglais – Sartre e Butor a Dos Passos; Robbe-Grillet e ancora Butor contaminando Agatha Christie con le «omissioni» testuali di un certo Hemingway. A riprova, forse, che l’opera precede sempre le teorizzazioni.