Bad Girl, star controvoglia, pin up punk, donna Chanel ora modella Pirelli…Kristen Stewart rimane una presenza fluida e iridescente sin dagli esordi da quando si impone all’attenzione di Hollywood, nel 2002 – undicenne –  come la figlia diabetica di Jodie Foster nel Panic Room di David Fincher. E forse non è stato casuale che proprio dalla Foster (con cui condivide un passato da child star ed un coming out senza rimpianti) abbia in qualche modo abbia raccolto il testimone di interprete femminile più originale della propria generazione.

All’esordio fanno seguito ruoli in cui appare sullo schermo come teenager taciturna, introversa o altrimenti ritrosa – sempre un pò enigmatica, spesso imbronciata. Nel 2007 fa a tempo ad interpretare una musicista spiritata con una cotta per Chris McCandless (Emile Hirsch) nel Into The Wild di Sean Penn. Poi la fama planetaria come Bella Swan nel feuilleton generazionale Twilight, ed il merito di essere sopravvissuta ad un uragano di celebrità che avrebbe potuto annientarla.

Invece emerge dal turbine teen idol con una carriera eclettica punteggiata da ricorrenti esperimenti che ne fanno un presenza fissa a Sundance in Camp X Ray di Peter Sattler è una marine di corvé nel campo di tortura di Guantanamo. Per Walter Salles è della comitiva Beat in On The Road. Interpreta Joan Jett nel Runaways di Flora Sigismondi.

Criticata spesso come impassibile esprime nondimeno un carisma innegabile che buca lo schermo, una qualità ineffabile che unisce forze e vulnerabilità. È musa di Olivier Assayas in Sils Maria e poi in Personal Shopper e diventa volto simbolo anche di Cannes a cui partecipa numerose volte, (compreso due anni fa nella giuria di Cate Blanchett). Si unisce al ristretto club di Americani adottati con passione dalla Francia: è la prima attrice d’oltreoceano a vincere un César (nel 2015 per Sils Maria). A settembre era a Venezia con Seberg in cui interpreta una precorritrice prestata da Hollywood alla Nouvelle Vague.

Ora per lei ragazza cresciuta in fretta e famosamente timida, alla viglia dei trent’anni c’~e una nuova sicurezza e un reboot di Charlie’s Angels, rilettura di terza generazione del classico kitsch di er Farrah Fawcett, già rilanciato in chiave femminista nella versione Drew Barrymore/Cameron Diaz e che ora vede l’aggiunta di un angelo gay (la Stewart, appunto). Ma il vero coming out è l a sua inedita ed inattesa attitudine comica in una versione, quella di Elizabeth Banks, che sfiora lo slaptstick.

Parlaci di Charlie’s Angels
Non avevo mai intrapreso un film così. Nessuno mi aveva ma dato l’opportunità  di «bighellonare produttivamente» per quattro mesi. Di solito c’è molto meno tempo a disposizione il ritmo è più intenso e l’atmosfera meno rilassata. Ci può stare anche quel tipo di progetto, ma in questo caso la pressione era zero, si è trattato di un esperienza illuminante. Un progetto condotto da un gruppo di giovani donne che mi ha dato una sorta di pace interiore. Credo che vi sia qualcosa di intrinsecamente forte in una giovane donna a suo agio, qualcosa di bello – come un sospiro di sollievo. Per me questo film è stato questo, mi sono sentita meravigliosamente sostenuta.

Cosa significavano per te le Charlie’s Angels prima del film?
Non sono cresciuta con la serie televisiva, semmai da bambina ho visto i film e in quelli mi identificavo soprattutto con Drew (Barrymore) che era la più rock ‘n roll e in generale mi sembrava la più fica. Da piccola avevo un’amica che assomigliava molto a Cameron Diaz, un pò più ballerina e strampalata. Ma per me la era rock star era Drew. La cosa che mi è piaciuta del nostro film invece è che va oltre un’idea, che circola molto qui, di una nuova femminilità ‘eroica’ fatta di superpoteri e una qualità algida e angelica. Preferisco un concetto più solidale in cui le donne sono individui, persone che in questo caso hanno solidarietà ed empatia e lavorano assieme per un obbiettivo comune.

Nel film ti trasformi spesso, anche in classica bionda, la prima volta mi sembra…
Semplicemente non rappresenta chi sono. Ogni donna è soggetta a una certa pressione per annacquarsi ed essere più digesta. Non che non ci sia chi è naturalmente incline ad apparire in quel modo e può essere un espressione sincera di un individuo. Personalmente conosco molte ragazze per cui è stata solo una fase dalla quale col tempo sono uscite. E molte ti dicono di avere modellato le apparenze per assomigliare agli altri, per venire accettate, per placare gli altri nel nome del quieto vivere. Anche io, se andate a rivedere le prime interviste, avevo i capelli lunghi biondi, stavo facendo anch’io un po’ così. Certamente volevo essere carina, volevo essere una ragazza ‘normale.’ Ogni volta che assecondi il bisogno degli altri di farsi un idea semplice di te, diminuisci la tua complessità. È vero anche nella scelta degli abiti, ad esempio stasera mi metterò un vestito lungo…non sopporto…credo che non ci sia un unico modo di essere, odio quell’idea. Cambiamo ogni giorno, ci sono un milione di versioni di noi stesse – anche in contraddizione fra di loro – e possono convivere.

Quali sono stati i personaggi femminili che ti hanno ispirato da giovane?Quelli di Ragazze Vincenti, ho amato quel film sul campionato femminile di baseball (di Penny Marshall con Gena Davis, Madonna e Tom Hanks – 1992, ndr.). Madonna, Geena, Rosie O’ Donnell….bellissimo film e bella storia di sorellanza. Mi piacevano  molto i personaggi, il fatto che la più bella era la più brava a giocare, ma anche insicura mentre quella meno brava era invece del tutto sicura di se, ed assieme sono entrambe più forti. Poi ero una grande fan di Jodie Foster in Taxi Driver, mi piaceva ogni volta che una ragazza non sapevi cosa avrebbe fatto, i personaggi imprevedibili mi hanno molto ispirata. Mi sono sempre piaciute le donne che operavano al di fuori da ciò che ci si aspettava da loro…

Come hai imparato a fare commedia?
La cosa principale è non pensarci troppo. Quando lavoro su un film drammatico il mio lavoro consiste nel riflettere a fondo ed immergermi del tutto in ogni momento. Elizabeth (Banks, ndr) mi ha aiutata a realizzare che nella vita le cose accadono più velocemente che non nella versione drammatica –  spesso gli attori tendono ad enfatizzare troppo le cose e questo toglie il divertimento. Io per esempio ho sempre pensato di essere il tipo capace di uccidere tutto ciò che era buffo. Non fraintendetemi, personalmente considero di essere una persona molto buffa. I miei amici pensano che sia spiritosa, ma è un umorismo un po’ particolare, non ‘commerciale’ direi, mi fanno ridere le cose bizzarre. Ho cercato di suggerirle a Liz e lei mi diceva, ‘si Kristen, a qualcuno farebbe sicuramente ridere ma credo che invece faremo una cosa che fa ridere tutti.’ Insomma senza di lei sarebbe sicuramente un film meno buffo – ma anche io ci ho messo del mio.

Oggi sembri molto più sicura di te, cosa è cambiato?
È solo passato il tempo, credo. Ho 29 anni e ora parlo da ventinovenne. Quando avevo 17, 16 o anche 15 ani e facevo le prime interviste mi esprimevo come una quindicenne. Non c’è un determinato momento in cui cambi, più cresci e più arrivi a conoscere te stessa e come ti poni nel mondo e diventa gradualmente più facile tradurre la tua vita interiore in parole. Amo le parole più di ogni cosa. Trovare la parola giusta ti permette di fare entrare qualcuno nel tuo pensiero, che sia scritta o parlata – o anche una parola che ti presta qualcun altro e che tu come attore adotti e reindirizzi.

Cosa significa essere attrice?
È un istinto di mettere a nudo la tua anima, l’impulso di mostrati davvero al pubblico è come voler dare una risposta onesta ad una domanda – ti fa sentire bene. Gli attori vogliono essere visti, vivono per mostrarsi e raccontare verità nelle storie. Quando non funziona è esasperante. Lasciare andare l’idea che tu possa sempre controllare ogni situazione può aiutare. Comunque poter comunicare, parlare ad una moltitudine di persone, è ovviamente una posizione di grande privilegio.