E dopo i Rolling Stones, anche i Kraftwerk a Roma. Mezzo secolo di storia della musica pop celebrata nel concerto dell’altra sera all’Auditorium. Da quasi tre anni in giro per il mondo, Kraftwerk 3D è romantico come i Winterreise di Schubert, esilarante come Dada e i coretti dei Beach Boys, spettacolo «totale» e per grandi masse come avrebbero voluto le avanguardie storiche e come stata la dance elettronica degli ultimi vent’anni che senza Kraftwerk non sarebbe neppure nata.

In 3d: con gli occhialetti, come di fronte a un blockbuster domenicale. Così anche i «visual» che fanno parte da sempre integrante della messainscena del gruppo tedesco, si trasformano in illusione magica, nostalgica: li puoi toccare adesso i robot con la camicia rossa e la cravattina nera, la Wolkswagen e la Mercedes sull’Autobahn a tinte acide fuori Dusseldorf, le matrici numeriche di Numbers e Computer Love, il treno stilizzato di Trans Europe Express, il disco volante di Space lab.

Del quartetto storico dei Kraftwerk è rimasto il solo Ralf Hutter, 67 anni. Inguainato in una tutina nera attraversata da fili fosforescenti, davanti al pulpito elettronico nel quale si sono trasformati gli strumenti della band. Maniaco malato della bicicletta (al Tour de France non a caso i Kraftwerk hanno dedicato un disco intero) che una volta in bici quasi ci lasciò la pelle. Con lui gli «ingegneri» Fritz Hilpert, Henning Schmitz, Falk Grieffenhagen. Capita a tutti i gruppi rock che veleggiano negli anta inoltrati di portare in scena quasi soltanto la propria vecchia ragione sociale.

Si vede in tutti i circhi della nostalgia come questo. Con la differenza che i Kraftwerk sono stati fin da subito una parodia di tutto ciò. Nessuno saprà mai se loro suonano «veramente» oppure no. Mettere in discussione la soggettività e l’autorialità nella musica pop, una specie di John Cage da supermercato, è ancora a distanza di tanti anni la sfida più inquietante di questa band.

Quanto alla nostalgia, negli anni 70 i Kraftwerk erano nostalgici delle avanguardie storiche e trasmisero il contagio a tanti, da David Bowie a Ian Curtis. Rendevano epiche le Wolkswagen come i rocker americani facevano con le Chevrolet, e un po’ li pigliavano per i fondelli. Guardavano il mondo con gli occhi dei robot, si abbronzavano all’ombra delle centrali nucleari, esibivano con ironia la paccottiglia del progresso e della ricostruzione tedesca.

Elaborando le colpe dei padri e del nazismo, come tanti altri della loro generazione, in una messainscena gelida mai vista né sentita fino allora. Con il krautrock, il nuovo cinema tedesco, il laboratorio radiofonico di Colonia, Giorgio Moroder, i Kraftwerk sono stati il più limpido contributo della Germania all’Europa unita qualsiasi cosa significhi, secoli prima di Bruxelles e della signora Merkel. Unire i puntini sulla mappa del vecchio Trans Europe Express.

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Finita la fase «creativa» tra il ’74 e l’83, l’arrivo dei computer ha trasformato il loro suono: i vecchi pezzi arrivano rielaborati, risuonati, aggiornati alle disponibilità tecniche (in origine i Kraftwerk gli strumenti se li costruivano da soli nel loro laboratorio). Restituiti al culto e alla sensibilità di chi li ha li venerati da una parte all’altra dell’oceano (produttori, dj, musicisti a Detroit, Londra, Tokio, ovunque). Di Radioactivity fanno la versione del 1991: Stop Radioactivity, dove alla crudeltà (ormai insostenibile anche per loro) del verso «discovered by Madame Curie» aggiungono l’elenco dei luoghi degli incidenti nucleari fino a Fukushima.

Ed è forse l’unico momento di soggettività nello spettacolo. I Kraftwerk hanno sempre cercato di sparire dal quadro, per lasciar posto al fluire del sentimenti e delle emozioni nel nuovo regno dei corpi trasformati dalle macchine. Avrebbero voluto essere sostituiti (e lo facevano) dai robot perché così – disse una volta Florian Schneider – avrebbero avuto più tempo per se stessi.
Missione compiuta. Lo spettacolo ora sono i grandi video che, in 3d, sovrastano e avvolgono i musicisti. Anzi, gli operatori («Sono l’operatore del mio mini calcolatore», è il testo italiano di Pocket calculator che arrivò ai primi posti della nostre hit-parade nei primi anni 80). Che indicano il quadro, suonano la colonna sonora del musical muto tratto dalle loro canzoni. Oltre a questo, e altri paradossi, non c’è niente da guardare.