Jeff Koons

 

  • Nella mostra di Jeff Koons (1955) che da qualche settimana si tiene a Palazzo Strozzi (Shine, a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro, fino al 30 gennaio 2022), la vetusta dimora dei banchieri fiorentini esalta il fascino delle opere esposte, che con le loro ammiccanti forme neo-pop riesumano solo per irriderla la distinzione tra cultura alta e bassa. Koons tratta di trascendenza, democrazia e generosità; ciononostante, il giudizio sulla sua produzione è spesso appannato dal sensazionalismo delle sue quotazioni e della sua vita privata. Affinché i temi emergano nella loro complessità, bisognerebbe porli sullo sfondo dei significati di cui le opere consentono l’esperienza, evitando di considerare Koons un divo del disimpegno.
    Nello spazio di permissività dischiuso dall’illusione neoliberista la lotta di classe degenera in una battle royale per la molteplicità degli stili di vita, la contestazione diventa merce e l’epilazione appare più urgente della rivoluzione. Tuttavia, il fatto che il dissenso sia oggi una modalità smart di adesione al capitalismo non impedisce l’esistenza di un’accettazione entusiasta. L’arte di Jeff Koons è un chiaro esempio di fede nell’ordine neoliberale, in cui ottimismo e autostima concorrono all’aumento del capitale umano.
    «Ho sempre cercato di lavorare su questa idea dell’accettazione del sé». Koons incoraggia lo spettatore a liberarsi dalla vergogna per la presunta meschinità dei propri gusti e intanto lo consola per l’imbarazzo che auspicabilmente gli causerà tramite l’opera – in qualche maniera sempre legata a sesso e differenza di classe, due ambiti in cui l’umiliazione è profonda. A livello esplicito Koons invita il pubblico a emanciparsi, ma in fondo lo spinge a riconoscersi come merce e a riconciliarsi con questa condizione alienata.
    Koons attribuisce carattere erotico a cose che di per sé non lo hanno e desessualizza immagini palesemente sessuali. L’ambiguità è fondamentale in lui, che traduce l’adesione al capitalismo in termini di dialettica del desiderio. L’importanza di questo elemento è ribadita fin dal titolo anche da un libro di recente pubblicazione: Il desiderio messo a nudo Conversazioni con Jeff Koons (traduzione di Federico Florian, Johan & Levi, pp. 144, € 16,00). Il volume si compone di interviste raccolte da Massimiliano Gioni in varie occasioni tra il 2008 e il 2021, e pertanto presenta ripetizioni e ridondanze che comunque permettono di cogliere le strategie di auto-narrazione escogitate dall’artista.
    «La gente dice che la mia unica preoccupazione è il lusso, ma l’unico lusso di cui m’importa è la bellezza del mondo». Koons nega con fermezza di essere un cultore del kitsch e sottolinea che nelle sue opere non c’è alcuna ironia: «è un atteggiamento che proprio non m’interessa. Per me la realtà è qualcosa di molto più generoso». In effetti, la provocazione da lui messa in atto non è quella di chi deride il gusto pacchiano dello spettatore. Al contrario, la sua è un’apertura totale, empatica e senza spocchia, perché ciò che conta davvero nella deregolamentazione estetica postmoderna è «lo stimolo, il senso di eccitazione, a prescindere dall’oggetto o dall’opera d’arte che lo può suscitare». Provocazione come eccitamento, dunque, non beffa né sfida.
    Le sue figure sono objet trouvés o citazioni la cui esecuzione è delegata e ossessivo-compulsiva. «Gran parte del mio lavoro consiste nell’assicurarmi che il risultato finale sia perfetto, pulito, senza impurità. Devo essere in grado di distanziarmi dalla mia opera e di osservarla dal punto di vista dello spettatore». Ma se ogni cosa è bella così com’è, perché cercare in modo maniacale di migliorarla? Se l’arte è accettazione – di sé, degli altri, del mondo –, perché rimarcare continuamente quanta fatica è necessaria per produrla? Ebbene, perché «tutto il lavoro che sta dietro la produzione delle mie opere, di fatto, serve semplicemente per non deludere la fiducia degli spettatori». Koons farebbe di tutto per non deludere il proprio pubblico, al punto che fama e denaro gli interessano solo in quanto mezzi per il traguardo supremo: rendere felici le persone. Elargizione del desiderio, senza discriminazioni di sorta: «le attenzioni che riservo agli oggetti e ai dettagli delle mie opere sono solo un modo per ricordare allo spettatore che in realtà mi sto prendendo cura di lui».
    Nei documentari girati nell’atelier dell’artista la videocamera inquadra Koons che parla mentre alle sue spalle gli assistenti continuano incessantemente a lavorare. È una rappresentazione di efficienza aziendale, ma soprattutto la dimostrazione che l’opera, come il desiderio, non è cheap, non è a buon mercato, perché implica perizia, sacrificio e dedizione. «Se vuoi accrescere il fascino degli oggetti, li devi ricreare, perché solo così li puoi perfezionare». Di conseguenza l’acciaio si finge gomma, la plastica si finge fiore, la stampa digitale si finge pittura e la pittura si finge fotografia. «Più qualcosa è camaleontico, tanto maggiori sono le sue possibilità». L’autore di sculture tra le più costose al mondo non ha mai scolpito in vita sua, però sa cosa fare e a chi rivolgersi per farlo. Scaltrezze da bravo vetrinista. Trionfo del packaging.
    La lezione che Koons ha appreso da Duchamp è che se qualsiasi cosa può essere un’opera d’arte, allora qualsiasi cosa può suscitare desiderio. Ma non basta ricontestualizzare o ribattezzare, l’oggetto va ripensato in modo da sublimare la sua banalità: «repliche e readymade, ricostruzioni e calchi, simulazioni e sculture… Ci sono tantissimi livelli differenti di imitazione e trasformazione». Riprodurre con procedimenti costosi l’aspetto esteriore di un oggetto industriale di scarso valore fino a rendere la copia indistinguibile dall’originale, o viceversa imitare pedissequamente con materie e tecniche industriali l’aspetto di un manufatto prezioso, è un’operazione concettuale. Certo, si tratta di un’operazione dai risvolti commerciali, ma sarebbe ingenuo liquidarla come pura e semplice mistificazione mercantile, perché incorpora una dimensione di autentica spiritualità. Quella di Koons non è una critica alla deperibilità della merce e alla società dei consumi, ma un’ode all’edonismo – che nel capitalismo può benissimo combinarsi con la spiritualità.
    Non è neanche un ragionamento sarcastico sull’impossibile promessa di appagamento nel consumo, perché Koons sa che la soddisfazione è inattingibile e gioca sul ribaltamento perverso dall’attesa del godimento al godimento dell’attesa. È un paradossale gioco di specchi. Il piacere non è nella diretta soddisfazione del desiderio, bensì nella sua rinuncia; e il fine ultimo del desiderio non è raggiungere qualche obiettivo particolare, ma riprodurre sé stesso in un ciclo potenzialmente infinito. A differenza degli ordini sociali premoderni, che ignoravano il paradosso del desiderio perché lo pensavano strutturato in modo finalistico, il capitalismo sfrutta scientemente il surplus di godimento. Occorre dare merito a Koons di aver capito questo meccanismo trovandogli un’applicazione rimunerativa in campo artistico.
    «Voglio essere sincero con il mondo e presentare con onestà il mio modo di percepire la realtà». Diversamente da quello che suppongono alcuni commentatori, Koons non bluffa, perché la sua ambiguità deriva dal sistema di valori in cui crede e da cui riceve legittimazione. «Se ce l’ho fatta io, non c’è motivo per cui non possa farcela anche tu». D’altronde, il mito a lui tanto caro dell’uomo qualunque che senza mai puntare al successo arriva quasi per incanto a frantumare i record di Christie’s rivela la natura ideologica del suo discorso.