Kon Ichikawa è, fra i grandi nomi della cinematografia classica giapponese, uno dei nomi allo stesso tempo più riconoscibili ma anche meno esplorati. Autore che nel corso della sua lunghissima carriera ha toccato molti generi e attraversato fasi qualitative assai diverse, Ichikawa è noto al grande pubblico soprattutto per L’arpa birmana, Fuochi nella pianura, Conflagrazione e per il documentario dedicato alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Due anni prima dell’opera che in qualche modo riscrisse il modo di rappresentare l’evento sportivo di proporzioni planetarie, il regista giapponese si cimentò con un tema molto delicato per la società nipponica, quello dei burakumin.

Sono questi una classe di fuori casta ed intoccabili che nel corso dei secoli sono stati relegati ai margini della vita civile del paese, di solito gruppi di persone che si occupavano di lavori ritenuti «sporchi» ed impuri come la lavorazione delle pelli e la macellazione di animali. Anche se questa classe fu abolita ufficialmente durante la rivoluzione Meiji nel 1868 con il susseguente processo di modernizzazione del paese, la discriminazione verso chi appartiene a famiglie discendenti da burakumin è purtroppo presente ancora oggi nell’arcipleago, spesso taciuta ma silenziosamente portata avanti.

Nel 1962 Ichikawa decide di trasporre sul grande schermo Hakai, famoso romanzo naturalista pubblicato nel 1906 dallo scrittore Toson Shimazaki che racconta appunto la storia di un giovane maestro di origini burakumin. Conosciuto in italiano come La colpa, nel mondo anglosassone anche come The Broken Commandments o The Outcast, il film ricalca abbastanza da vicino il lavoro di Shimazaki. Cupo e fotografato magnificamente in bianco e nero, il lungometraggio non ha paura di affrontare di petto ed in maniera molto diretta la discriminazione verso questa casta di intoccabili e la colpa che ognuno di questi individui porta con sé quando cerca di vivere nella società «civile» nascondendo le proprie origini.

Succede così al giovane protagonista che seguendo la volontà del padre, a cui promette di non rivelare mai a nessuno da dove proviene, diventa un maestro in un villaggio. Quando nelle primissime scene del film però il figlio fa visita al padre e lo trova deceduto, questa promessa diventa sempre più debole, anche perché il giovane è un avido ammiratore e lettore di uno scrittore ed attivista burakumin che capita casualmente nel villaggio. Il tormento fra la promessa fatta al padre e la volontà di dichiarare a tutti le sue origini e quindi di provare a cambiare la società in cui vive, è la tensione che caratterizza tutto il lungometraggio, anche grazie all’ottima interpretazione nel ruolo del protagonista di Raizo Ichikawa.

A complicare la situazione interviene la relazione amorosa che si instaura fra il giovane maestro e la figlia di un samurai in rovina. Molti dei privilegi riservati alla classe dei samurai furono aboliti proprio con l’inizio del periodo Meiji, entrambi i personaggi rappresentano dunque un fuori della società, degli scarti ritenuti poco più che umani.

La ricerca di un umanesimo che cancelli classi e distinzioni dovute alle origini ed al denaro è l’impeto che muove tutto il film ed il suo protagonista, un sentimento che trova una perfetta rappresentazione soprattutto in una delle scene finali de film. Qui il giovane confessa fra tormenti interiori e in lacrime, di essere un burakumin alla sua classe di bambini che lo ascoltano a bocca aperta. In questi pochi minuti è racchiusa tutta la bravura di Ichikawa nel mettere insieme immagini e parole, un tocco che è dovuto anche, se non soprattutto, a Natto Wada, moglie del regista e sceneggiatrice di molti dei suoi capolavori.

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