Se è vero che la reputazione è una forma importante di capitale sociale e che si ha reputazione quando viene formulato dai propri pari un giudizio positivo o negativo sulle competenze(tanto che si può avere buona o cattiva reputazione), basta soffermarsi sul parere che i colleghi hanno di Sheila Maurice-Grey, per rendersi conto che la trombettista londinese è sulla buona strada per diventare una delle musiciste più rispettate della sua generazione. Ad esempio, secondo il batterista Moses Boyd, Sheila Maurice-Grey è una delle musiciste più interessanti di ultima generazione. Ma l’artista, suo coetaneo non è l’unico a spendere parole lusinghiere su questa trombettista dalla stoffa promettente che ha all’attivo collaborazioni altolocate in vari ambienti, da Solange a Simz, Kano e un gettone al Mercury Prize 2016. Eletta all’unanimità bandleader dei Kokoroko, una giovane formazione di all-star composta da altrettanto abili musicisti e musiciste, come dimostra il loro primo ep omonimo, pubblicato sulla Brownswood di Gilles Peterson, e uscito lo scorso 8 marzo: quattro incisioni che mirano più all’approccio ai fiati (e alla chitarra) dei dischi di Ebo Taylor e che dal jazz classicamente inteso ereditano ritmo, improvvisazione e il colore politico dei tempi d’oro della New Thing. Non è musica anodina, quella dei Kokoroko ma musica di resistenza all’alienazione di chi ha un colore della pelle diverso pur essendo nato in Gran Bretagna. Lei è anche compositrice dall’attitudine jazz, vocalist e pittrice. Ciò che le interessa è esplorare con la sua arte la sua identità culturale (ibrida), forgiata dalle influenze più disparate, come è ovvio che sia per una ragazza nata da genitori africani in una città culturalmente pulsante come Londra, e come le rappresentazioni della «blackness»(ad esempio i blackface minstrel) nella cultura occidentale, non siano realistiche. Uman è una composizione scritta dalla stessa Ms Maurice (come si fa chiamare lei), in cui la musicista intende smascherare il tropo che ha iper-sessualizzato il corpo delle donne nere nel corso della storia (a partire dalla Venere ottentotta Sarah Bartmann), con l’intenzione di redimere questi corpi, perciò il chorus è una reiterazione della parola «uman». È musica che ci porta dentro una storia che interseca paesaggi, razza, genere, che ha più a che fare con l’evoluzione che con la rivoluzione – anche sul piano delle strutture, il clima è più di «classicità» che di tempeste sonore, è più un incastro armonioso di linee -, con la trasformazione delle coscienze e del modo di vedere i neri, non più attraverso immagini caricaturali o negative, ma come esseri umani.
I Kokoroko sono una formazione multietnica di otto elementi con un’età compresa tra i venti e i trent’anni e una sezione fiati formata interamente da donne: Sheila Maurice-Grey alla tromba, Cassie Kinoshi al sax, Richie Seivwright al trombone. «Ho fondato la band con Onome (il percussionista, Ighamre, ndr) nel 2015, 2014. Gli altri membri si sono aggiunti gradualmente, alcuni li abbiamo conosciuti durante i corsi e i programmi di musica, altri si sono aggiunti con il passaparola di amici di amici. In Gran Bretagna, e in particolare a Londra, abbiamo alcuni corsi specifici dedicati al jazz, uno di questi è il Tomorrow’s Warriors, un’altra esperienza molto formativa è Kinetica Bloco (street band sullo stile del carnevale brasiliano, ndr), molto attivi nel formare le nuove generazioni di musicisti».
Kokoroko si può tradurre con l’«essere forti» da uno dei tanti idiomi locali della Nigeria, e sembra essere lì a rimarcare certe radici. «Ho scelto io il nome, cercando tra centinaia di parole diverse in lingua Urhobo, è un nome che evoca la forza e ognuno può intenderlo come vuole. Ma non siamo tutti afro-discendenti nella band. Uno è inglese (il chitarrista ventenne, Oscar Jerome che, con l’aria di essere lì per caso, si è inventato i complessi labirinti ritmico-armonici del brano, Abusey Junction, con oltre 20mila visualizzazioni su Youtube, ndr), alcuni di noi hanno genitori africani, altri caraibici». Lei ha un albero genealogico molto intricato: padre della Guinea Bissau, madre della Sierra Leone e nonni dallo Zimbabwe e dal Sudafrica. Ma è nata a Londra, è cresciuta nel South-West della capitale inglese, ha studiato al Trinity Laban. «No, non sono cresciuta in una famiglia di musicisti, ma ho un fratello minore musicista. Sai, ho avuto interesse per la musica sin da piccola e ho cominciato a suonare vari strumenti, ma per divertimento. Non so perché ho scelto la tromba, forse perché era uno strumento disponibile a scuola. Ho pensato che fosse semplice suonarla e mi sono detta, ok, voglio suonare la tromba, ma non era affatto facile. Comunque mi sono ritrovata completamente immersa in questo strumento». Riflette sul retaggio africano, sulla doubleness (un termine coniato da W.E.B. Dubois per indicare il conflitto interiore sperimentato dai gruppi subalterni in una società oppressiva) e la dialettica tra doppia identità e doppia coscienza. «Questo fatto che sono inglese, ma non sarò mai classificata come inglese».
Ma è la mescolanza di elementi tra le differenti culture musicali a rendere Londra una capitale europea sui generis, e a vivacizzare la scena musicale e artistica, è il mix tra la componente ancestrale africana, il sincretismo caraibico e il suono urbano della capitale britannica, e il fatto che i jazzisti abbiano cominciato – ormai da qualche generazione – ad innestare i più svariati materiali dentro la matrice african american, e a proporre forme di produzione autonome e singolari, a continuare a tenere alta l’attenzione su questo bacino di musiche. «Non è solo jazz, prendiamo gli aspetti delle diverse culture e li fondiamo insieme trasformandoli in un prodotto culturale tipicamente britannico».
Kokoroko nasce nelle intenzioni di Ms Sheila e Ighamre (anche lui afrobritannico), per andare incontro a un immaginario black scarsamente rappresentato nella cultura britannica. «È grazie a gente come Gary Crosby che ha fondato Tomorrow’s Warriors o come Mat Fox, ideatore di Kinetica Bloco che noi siamo qui. Se il jazz a Londra è diventato popolare al di fuori dei circuiti ristretti ed esclusivi o elitari, si deve a un’intera generazione di jazzisti più grandi che hanno fondato una scena jazz inedita in cui io e tutti gli altri musicisti più giovani siamo cresciuti e ci siamo formati. Noi musicisti di ultima generazione siamo cresciuti insieme, io conosco molti di questi artisti da molto tempo, perché abbiamo studiato nelle stesse scuole, suoniamo negli stessi posti, nelle stesse zone. Questo, secondo me, fa la differenza!».
Che effetto fa suonare uno strumento che riveste una funzione culturale così significativa nella costruzione simbolica dell’identità maschile e guidare una band in un ambito in cui il ruolo di bandleader è stato per lungo tempo riservato agli uomini? «Sono cresciuta in un contesto in cui la discriminazione di genere non era contemplata. Di conseguenza non ho incontrato grossi problemi nel diventare una musicista. Per fortuna, vivo in un’epoca in cui il pensiero delle donne può parlare a voce alta, in cui non è tanto strano che una ragazza suoni uno strumento tradizionalmente maschile (o riservato agli uomini) come la tromba o i fiati in genere, e in cui è normale che una donna sia leader di una band. Infatti, mi sono sempre sentita a mio agio in tutte le band di cui ho fatto parte finora, perché nessuno ha mai posto l’accento sul fatto che io sono una donna. Credo che le musiciste donne siano state confinate a lungo in una zona grigia dove non erano facilmente visibili, in un periodo in cui non era facile conquistarsi uno spazio come donna, per giunta nera. Ma anche in passato ci sono state donne che hanno ricoperto questi ruoli, solo che non si sa perché non si conoscono, credo che il numero di strumentiste donne che hanno avuto visibilità nel jazz sia di gran lunga inferiore al numero di jazziste realmente esistite».