L’arte può davvero cambiare il mondo? Per Katarzyna Kobro (1898-1951) e Władysław Strzeminski (1893-1952), figure essenziali dell’avanguardia artistica polacca tra le due guerre mondiali, la risposta era affermativa e tale fu l’obiettivo che inseguirono con intransigente visionarietà per tutto l’arco intensissimo e accidentato delle loro esistenze: fondere la più ardita sperimentazione formale con un orizzonte di radicale cambiamento sociale. Fondatori di uno dei primi musei d’arte moderna, il Muzeum Sztuki di Łódz, membri di influenti circoli dell’avanguardia europea, Kobro e Strzeminski articolarono lungo l’arco di tre decenni la loro visione in sculture, pitture, progetti grafici e architettonici, di cui la retrospettiva in corso al Centre Georges Pompidou a Parigi (Une avant-garde polonaise Katarzyna Kobro et Władysław Strzeminski, a cura di Jarosław Suchan e Karolina Ziebinska-Lewandowska, fino al 14 gennaio) presenta un ampio e convincente spaccato.
Nella prospettiva dell’«unismo» – la poetica di radicale orientamento modernista elaborata da Strzeminski alla fine degli anni venti – per poter giungere a piena autonomia la pittura deve anzitutto individuarsi come superficie piana, pura e atemporale, spogliata di ogni elemento simbolico, narrativo o drammatico. Analogamente, per Kobro la scultura deve assumere lo spazio come propria materia esclusiva, articolata secondo ritmi dedotti da regole matematiche universali. Per entrambi tuttavia, come del resto per tutta l’avanguardia costruttivista europea, l’artista non può limitarsi alla produzione di oggetti estetici, ma deve mirare a una trasformazione complessiva della realtà ispirata a nuovi paradigmi percettivi e formali: i modelli compositivi «puri» creati dall’arte possono dunque ispirare soluzioni inedite per l’architettura, l’urbanistica, l’industria, l’organizzazione sociale, puntando a risolvere l’apparente contraddizione tra assoluto della forma e sua implicazione concreta nella sfera pratica e produttiva.
Le sculture e le costruzioni geometriche tridimensionali di Kobro, in particolare le Composizioni spaziali in metallo smaltato degli anni venti, i dipinti e i rilievi astratti di Strzeminski, come ad esempio le sue Composizioni architettoniche dello stesso periodo (ma anche gli straordinari disegni realizzati durante e appena dopo la guerra, meditazioni strazianti sul destino umano che testimoniano il suo abbandono dell’unismo a favore di una figurazione organica di radice surrealista), testimoniano nella mostra parigina l’eccezionale coerenza del percorso dei due artisti nel praticare questa esigenza di espansione e rigenerazione costante del sensibile e del pensabile.
Quella propugnata da Kobro e Strzeminski è in effetti un particolare tipo di «utopia reale» che non ambisce a stabilire un sistema sociale ideale «qui e ora» attraverso un atto di cesura violenta, una rivoluzione, ma a sviluppare nuovi, alternativi modelli di esperienza, immediatamente traducibili in progetti suscettibili a loro volta di modificare l’ordine tradizionale. Nessun modello sarà dunque definitivo, perché sempre connesso a condizioni storiche determinate. L’«utopia reale» lasciata in eredità dai due artisti polacchi – ed è un discorso che può risuonare anche nella nostra epoca disincantata – equivale così a un invito irresistibile a superare il limite di ciò che è immaginabile, a forzare la sempre apparente compattezza della «realtà».
Ho incontrato Jarosław Suchan, uno dei due curatori della mostra e direttore del Muzeum Sztuki di Łódz, all’Istituto Polacco di Roma, in occasione di una sua conferenza nell’ambito del progetto Avanguardia polacca. Cultura e arte dopo la riconquista dell’indipendenza.
Quali sono le principali novità di questa mostra per la conoscenza della dell’opera di Katarzyna Kobro e Władysław Strzeminski? È una riscoperta?
Kobro e Strzeminski non erano ovviamente sconosciuti prima di questa esposizione. Negli anni trenta erano anzi ben noti nell’ambiente dell’avanguardia europea. In seguito, la conoscenza della loro arte è rimasta limitata a una piccola cerchia di specialisti dell’arte moderna dell’Europa orientale. Per questo la mostra al Centre Pompidou rafforzerà senza dubbio la loro statura internazionale.
Dove e in che modo Kobro e Strzeminski iniziarono il loro percorso artistico?
Si incontrarono nel 1918 nei circoli dell’avanguardia russa. Erano entrambi nati nella Russia imperiale: Strzeminski in una famiglia polacca, Kobro in una russo-tedesca. Entrambi appartenevano alla cerchia degli artisti radicali di Mosca: Tatlin, El Lissitsky, Malevich e altri, che influenzarono le loro prime opere. Le loro personalità originali sono emerse più tardi, in Polonia, quando svilupparono le loro teorie in risposta al suprematismo di Malevich.
Erano attratti dal suo misticismo?
No. Rifiutavano lo spiritualismo di Malevich e il tentativo di usare la pittura come una sorta di cancello o, come diceva Strzeminski, di «buco verso un altro mondo». Dal suo punto di vista era un errore: per lui un dipinto era solo un oggetto messo di fronte agli occhi. L’unico obiettivo di un artista, di un pittore, doveva essere organizzare in modo corretto quel determinato oggetto, quella struttura. Il suo era un modo molto materialistico di pensare l’arte.
I due contribuirono a fondare il Muzeum Sztuki a Łódz, uno dei primi musei di arte moderna al mondo. Fu un’impresa pioneristica, unica al tempo. Come nacque il progetto?
Quando Strzeminski tornò in Polonia, alla fine del 1921, cominciò a pensare di creare un’esposizione permanente di arte di avanguardia, qualcosa di simile ai «musei di cultura artistica» della Russia sovietica, ma su basi più stabili. A Łódz, una importante città industriale dove si era trasferito per insegnare, le autorità cittadine stavano aprendo un museo municipale per elevare le competenze culturali dei lavoratori; lì fu riservato uno spazio per la raccolta di arte di avanguardia creata da Strzeminski insieme a Kobro, Henryk Stazewski, un pittore, e due poeti, Jan Brzekowski e Julian Przybos. Insieme formarono un gruppo, «a.r.», acronimo che significa «artisti rivoluzionari» o «vera avanguardia», che iniziò a raccogliere opere in tutta Europa.
Il fatto notevole è che non si trattava di acquisti.
No, infatti, erano donazioni. Era una situazione unica: grandi artisti, figure cruciali dell’avanguardia europea, decisero di donare le loro opere alla collezione, come fecero molto più tardi, nei primi anni ottanta in sostegno a Solidarnosc, Joseph Beuys, Sol LeWitt, Dan Graham, Richard Nonas e altri.
Strzeminski e il gruppo a.r. avevano un atteggiamento «enciclopedico» verso l’avanguardia modernista o volevano documentare solo l’arte astratta e costruttivista?
Strzeminski pensava che per creare qualcosa di nuovo gli artisti dovessero conoscere la storia delle forme artistiche. Era molto pragmatico: credeva anche che la rivoluzione che voleva innescare fosse possibile solo se fossero stati coinvolti non solo gli artisti, ma un pubblico molto ampio che capisse e sostenesse la nuova arte. Così, il museo non serviva solo a «educare», ma era parte di un progetto di emancipazione, era uno strumento per cambiare l’ordine sociale.
Quando è stata aperta al pubblico la collezione, e cosa è successo in seguito?
L’inaugurazione avvenne nel febbraio del 1931; all’epoca vi erano solo due sale dedicate all’arte moderna all’interno del Museo municipale di arte e storia di Łódz. La collezione consisteva inizialmente di centododici opere di artisti come Léger, Calder, Picasso, Vantongerloo, van Doesburg, Ernst, Schwitters, Sonia Delaunay, Sophie Taeuber-Arp, Prampolini e altri.
Dopo la guerra la Polonia fu trasformata in una Repubblica socialista di ispirazione sovietica. Cosa successe alla collezione?
Tra il 1945 e il 1949 in Polonia c’era ancora relativa libertà culturale. Il Museo ottenne un nuovo spazio, l’enorme palazzo di un ex industriale. Le opere d’avanguardia vennero esposte di nuovo e a Strzeminski fu chiesto di progettare una sala apposita, battezzata «sala neoplastica». È uno spazio unico, pensato per essere non solo un luogo neutrale per esporre opere d’arte ma per coordinare il movimento dei corpi degli spettatori, il loro sguardo nello spazio.
E cosa successe dopo il 1949?
La situazione peggiorò, perché alla fine del 1949 il partito comunista rese obbligatorio il realismo socialista, e ciò naturalmente metteva fuori legge sia la raccolta del gruppo a.r. che il lavoro di Kobro e Strzeminski. La sala neoplastica fu distrutta, e le opere di avanguardia finirono in deposito. Ma il realismo socialista non durò a lungo in Polonia: nel 1956 il Muzeum Sztuki fu ancora una volta riallestito e le opere moderniste furono di nuovo esposte; tre anni dopo la sala neoplastica fu ricostruita con l’aiuto di un allievo di Strzeminski.
Ritieni che i musei d’arte debbano avere oggi un ruolo di agenti di cambiamento sociale o politico, come Strzeminski pensava negli anni trenta?
No, non credo che le istituzioni artistiche debbano essere direttamente coinvolte nei processi sociali. Penso che il ruolo principale dell’arte sia cambiare la nostra mente, il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. Le opere d’arte possono agire come una sorta di crepa nell’immagine monolitica che ci viene fornita come unica immagine possibile della nostra epoca. Questo può essere l’inizio di un cambiamento. C’è un enorme deficit di immaginazione, il nostro modo di pensare è oggi molto convenzionale. Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno adesso è il coraggio di andare oltre, di oltrepassare i limiti. Abbiamo più che mai bisogno del modo coraggioso di pensare di Kobro e Strzeminski, della loro utopia reale come modello di pensiero.