I turchi non permettono ai giornalisti di entrare a Kobane. Siamo a pochi metri dalle prime case della città, possiamo intravedere la devastazione, i palazzi ridotti in scheletri, le mura sgretolate e le grandi fessure da dove possono sparare i cecchini, quel che rimane dopo una guerra. I primi soldati turchi ci avevano lasciato attraversare il ponte per parlare con il capo, ma il comandante turco è inflessibile: da qui non si passa. E non si capisce perché siano i turchi a impedirci di entrare in territorio siriano, ma siamo in zona di guerra e loro la fanno da padrone, come hanno fatto prima lasciando passare gli aiuti ai jihadisti.

Chi entra a Kobane – e ci sono alcuni fotografi e giornalisti – lo fa per altre vie, ma ci vuole tempo, troppo, che non abbiamo. Chi invece attraversa il piccolo ponte che separa la Turchia dalla Siria (Rojava, sotto controllo kurdo) sono gli sfollati – i kurdi non li chiamano profughi, tutti appartengono al Kurdistan –, 2/3.000 al giorno, parecchie decine di migliaia (circa 50.000, in totale, ma la cifra aumenta ogni giorno).

Nonostante le raccomandazioni di aspettare, sono stufi di vivere in tende e impazienti di vedere com’è ridotta la loro casa, ben sapendo che ci sono poche speranze di rivederla in piedi, ma è sempre la loro terra.
«L’80% della città è distrutta e il restante 20% necessita di grandi riparazioni: i segni della guerra sono ovunque, sui muri rimasti in piedi, nei crateri che si aprono nelle strade. Ora Kobane è completamente liberata e i suoi confini sono sotto controllo dell’YPG/YPJ (Unità di difesa popolare maschili e femminili), che pattugliano la città giorno e notte, ma la maggior parte di loro stanno ancora combattendo nei villaggi vicini ancora sotto l’assedio del Daech», ci racconta Zeynep, una giovane kurda, che, pur vivendo da molti anni a Londra, ha un documento turco e così ha potuto entrare a Kobane insieme a un uomo d’affari kurdo iracheno che vuole proporre alle autorità cantonali la costruzione di 8.000 nuove case. Naturalmente dovranno essere ecologicamente compatibili secondo la Carta di Rojava (vedi scheda).

I cadaveri ancora sparsi

Prima di costruire occorre risanare il territorio. I cadaveri sono ancora sparsi e rischiano di provocare epidemie, ma non ci sono medicine (la necessità più immediata, insieme al cibo).

Il pericolo maggiore è costituito dalle mine disseminate un po’ ovunque: gli ordigni esplosivi lasciati dallo Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil) si trovano per strada, nelle case, dentro gli oggetti della cucina,come le teiere.

«Due dei quattro ospedali sono completamente distrutti. E i due danneggiati sono in attesa di riparazioni. In un vecchio edificio seminterrato sono state ricavate tre stanze – senza un’illuminazione appropriata – che servono per curare i combattenti feriti. Tutti i medici sono volontari, mai più di tre o quattro per turno di otto/nove ore. Mancano le medicine, quelle poche disponibili sono tutte ammassate nella stanza in cui si prestano le cure», racconta Zeynep. Durante i combattimenti per liberare Kobane, molti combattenti sono morti mentre attendevano alla frontiera di poter passare in Turchia.

Un altro ospedale simile a quello dei combattenti serve per dare le prime cure ai civili, ma anche in questo caso i mezzi a disposizione sono assolutamente insufficienti. All’inizio di aprile Medici senza frontiere ha avviato un progetto per la ricostruzione di un ospedale con tredici posti letto. È solo l’inizio ma un segnale importante per la popolazione di Kobane.

«In città è in funzione una panetteria che ha aiutato i combattenti a sopravvivere durante l’assedio. Ora sforna 120.000 pagnotte al giorno per chi è rimasto o è tornato a Kobane. Per farlo occorrono 55 tonnellate di farina e 300 kg di lievito ma soprattutto spesso manca il combustibile per far funzionare il forno», continua Zeynep.

Non solo combustibile, servono anche generatori, l’unico modo ora possibile per produrre elettricità.

Anche delle 19 scuole esistenti a Kobane prima dell’intervento dell’Isil, solo quattro hanno ancora qualche parete in piedi. Eppure lo sforzo per tornare alla«normalità» impone il ritorno a scuola, anche se per ora in sei aule semidistrutte.

Questi segnali sono importanti, ma la ricostruzione di Kobane passa necessariamente attraverso la fine dell’embargo che impedisce il passaggio dalle frontiere tra la Turchia e la Siria di qualsiasi merce che non sia considerata aiuto strettamente umanitario. Proprio dalla Turchia sono invece passati tutti gli aiuti agli oppositori di Assad, compresi quelli diretti ai terroristi del Fronte al Nusra e dell’Isil (soldi, armi e combattenti) e provenienti dai paesi del Golfo ma anche dall’occidente. «Sono circa 2.000 i camion carichi di armi che sono passati da qui», sostiene l’avvocato Moharem Erbew, che abbiamo incontrato a Diyarbakir. La Turchia ha certamente giocato un ruolo molto sporco in questa guerra e continua a farlo. Occorre una pressione internazionale per porre fine a questa situazione, ce l’hanno chiesto tutti i rappresentanti kurdi che abbiamo incontrato.

«Primo, sminare il territorio»

A Suruc, una cittadina di 50.000 abitanti a pochi chilometri dalla frontiera, il punto di riferimento per avere dati sui profughi è il Centro culturale. Tra gli organizzatori dei rientri a Kobane, oltre che della raccolta di aiuti, vi è Fayza Abdi. Docente di inglese, laureatasi all’università di Aleppo, è copresidente del consiglio legislativo di Kobane.

«Per garantire il ritorno degli sfollati a Kobane occorre innanzitutto provvedere allo sminamento del territorio, per evitare altre vittime, ne abbiamo già contate cinquanta a causa delle mine. Deve intervenire l’Onu per far cambiare la politica: la Turchia deve riaprire la frontiera per permettere il passaggio di mezzi per lo sminamento e aiuti per la ricostruzione della città», sostiene Fayza che sollecita anche gli Usa a impegnarsi. «Gli Stati uniti se vogliono possono fare molto» e, come molti altri responsabili kurdi che abbiamo incontrato nel nostro viaggio, apprezza i bombardamenti della coalizione contro l’Isil.

Sono circa 200.000 gli sfollati fuggiti da Kobane e rifugiatisi in Turchia, nella zona di Suruc, dove 103 amministrazioni comunali sono controllate dal kurdo DBP (Partito democratico delle regioni derivato dal Partito della pace e della democrazia). Sono infatti le amministrazioni locali il maggiore sostegno ai rifugiati, in parte ospitati nei sei campi che si sono costruiti nella cittadina, mentre molti altri sono stati distribuiti nei villaggi e ospitati nelle case. Per la gestione dei campi è stato costituito il Coordinamento di crisi per Kobane. Ciya, una insegnante di 23 anni di Diyarbakir, è la co-presidente della Rojava Aid and Solidarity Foundation, che gestisce gli approvvigionamenti per i campi. Compito suo è anche quello di individuare quali sono le urgenze da soddisfare: cibo, medicine, etc. Era arrivata a Suruc per una settimana ed ora è qui da sei mesi, racconta.

Che cosa l’ha spinta a lasciare il lavoro e a impegnarsi per i rifugiati? «Mia sorella, di 21 anni, ha perso la vita combattendo a Kobane. Io penso ci siano diversi modi per partecipare alla resistenza, questo è il mio» dice, non escludendo, se fosse necessario, anche di prendere le armi. A pochi passi dal magazzino di raccolta degli aiuti si trova il campo Rojava. Alcuni giovani stanno smontando le strutture delle tende, qui prima vivevano 850 sfollati, ora ne sono rimasti 700, gli altri sono rientrati a Kobane e altri ancora sono decisi a partire. Nonostante i rischi.

«I martiri vivranno per sempre»

Siamo ancora nel campo quando improvvisamente tutti escono per la strada urlando: «I martiri vivranno per sempre»: sta passando il feretro di un combattente caduto in battaglia. Quasi ogni giorno ci sono vittime nello scontro con i jihadisti dell’Isil nei villaggi del Rojava. Eppure nonostante i «martiri» di ogni giorno e la minaccia che ancora rappresenta l’Isil, qui tutti sono ottimisti e la fiducia è riposta soprattutto nelle combattenti donne, diventate un vero e proprio mito.

«La forza delle donne, come ci spiega la sindaca di Suruc Zahal Ekmez, 36 anni, è nata nelle lotte dei lavoratori, nel movimento delle donne e degli studenti. La sua storia è quella di tante altre che stanno affermando la loro presenza in tutti i luoghi di potere. La politica di Ocalan vuole una parità di genere in tutte le istituzioni: così se in una città viene eletto un sindaco maschio viene affiancato da una co-sindaca e viceversa». Zahal non nasconde che l’empowerment delle donne non è facile da far digerire ai maschi che si oppongono persino alla possibilità di far lavorare le loro mogli. A Suruc sono solo 5 su 200 le impiegate nell’amministrazione comunale, ma la sindaca assicura che le prossime a essere assunte saranno tutte donne.

Zahal quando ci riceve è di ritorno dall’ospedale dove ha fatto visita a combattenti feriti e quando ci lascia è per andare a un funerale. Kobane, a pochi chilometri di distanza, ha cambiato la vita anche a Suruc. Anche i campi dei profughi sono in gran parte gestiti da donne, nonostante gli scarsi mezzi sono ben organizzati: i pasti vengono distribuiti con un furgoncino – burghul, salsa, fagioli e un sacchettino di dolci. Ci sono i bagni, una scuola – dove si insegna in kurdo – e accanto a qualche tenda spunta anche un’antenna parabolica.

A qualche chilometro da Suruc si trova l’unico campo profughi gestito dall’Afad, un’organizzazione governativa per l’emergenza, nella provincia di Urfa.
Quando arriviamo al campo, comincia a fare buio, e ci appare come una cattedrale nel deserto, con la sua sagoma a forma di cuore ostentatamente illuminata. L’immenso campo di tende bianche, divise per quartieri separati e con una guardiola all’entrata, è certamente ben organizzato e protetto da una polizia privata e da rotoli di filo spinato che danno però il senso di una prigione. Il confine tra sicurezza e repressione è molto sottile.

Ci lasciano entrare anche senza autorizzazione, ma potremo parlare solo con i controllori, i dirigenti del campo, compreso un efficiente ufficio stampa, o di propaganda, e non con i controllati, salvo poche parole scambiate per caso con donne che stanno uscendo («per andare al funerale di un martire») o rientrando. Un interprete dal turco al kurdo – uno dei 60 assunti al campo – ci accompagna per tradurre le nostre domande, anche se quelle più insinuanti restano senza risposta. «Voi ora aiutate i kurdi, ma prima avete sostenuto l’Isil», l’assistente del direttore non risponde ma non nega e dirotta il discorso. Il campo dispone di 45.000 posti, le tende ospitano ognuna cinque persone, ma finora solo 15.000 profughi hanno approfittato della disponibilità. Il campo fa mostra di un’accurata organizzazione, ogni tenda ha una cucina, ci sono lavatrici, parrucchieri per uomo, negozi dove gli «ospiti» possono comprare il necessario per cucinare attraverso una scheda mensile di 82 lire (circa 35 euro) a persona. Eppure la maggior parte degli sfollati preferisce i campi gestiti dalle amministrazioni kurde, dove non ci sono tante risorse ma si respira maggiore libertà e non ci sono fili spinati. Nel campo di Afad gli insegnanti di Kobane usano l’arabo, mentre 5 ore la settimana sono dedicate al turco.

La maggiore diversità rispetto agli altri campi si percepisce nella mancanza di umanità. In quelli gestiti dai kurdi i bambini scorrazzano e si avvicinano senza chiedere aiuti, ma solo un sorriso, una carezza, un abbraccio per lenire i traumi subiti a Kobane.