Una campagna di lungo termine, con successi e passi indietro. Così il presidente Obama ha definito la guerra lanciata allo Stato islamico, nell’incontro dei capi militari di 22 paesi della coalizione martedì a Washington. Il presidente non ha toccato la questione della strategia, che non cambia: bombe dal cielo, nessuna truppa a terra. Nemmeno turca: Washington ha reiterato le pressioni su Ankara e la Francia ha fatto appello alle autorità turche perché aprano le frontiere e garantiscano il passaggio dei kurdi turchi intenzionati a sostenere la resistenza di Kobane.

La sola novità giunge dal fronte russo: Mosca e Washington condivideranno le informazioni di intelligence sull’Isis, seppure la Russia non abbia aderito al fronte globale per il fondato sospetto che uno dei target sia il presidente siriano Assad e perché contraria ai raid sulla Siria senza mandato Onu.

Intorno a Kobane ieri si sono comunque intensificati i bombardamenti della coalizione. Gli ultimi raid sono stati accolti positivamente dai combattenti kurdi delle Unità di protezione popolare (Ypg) che hanno per la prima volta parlato di un coordinamento con i jet Usa: i raid hanno ucciso 32 islamisti, dopo che le Ypg avevano fornito informazioni dirette sulle postazioni Isis, ha fatto sapere un portavoce kurdo, Polat Can.

Proprio la mancanza di una rete di intelligence sul terreno, ad oggi, ha ridotto la capacità della coalizione, quella rete che in Iraq è fornita dai peshmerga a nord e solo in parte, nel resto del paese, dall’esercito iracheno.

Le Ypg, legate a stretto filo al Pkk, non sono certo il migliore degli alleati per gli Stati uniti, ma un coordinamento è strategico: ieri i raid mirati hanno aiutato i combattenti kurdi a spingere di nuovo indietro le file dell’Isis, verso est, allontanandole dal centro di Kobane e dal confine turco. Ieri a sventolare sulla collina occidentale di Tel Shahir non era più la bandiera nera islamista, ma quella kurda.

Non pare invece intaccata l’avanzata islamista in Iraq: ieri l’Isis ha circondato Amariya al-Fallujah, a 40 km da Baghdad, strategico corridoio tra Fallujah e la provincia di Babilonia, e ha preso la comunità di Kubaisa, dopo aver occupato Heet e la sua base militare, abbandonata dall’esercito in fuga. I comandi militari hanno assicurato di aver portato via armi e cibo per evitare che diventassero facile preda dei miliziani. Ma si alzano voci contrarie: il colonnello Aljughaifi ha detto alla stampa che «l’Isis ha requisito quanto era nella base: carri armati, artiglieria pesante, munizioni».

Una notizia la cui portata è appensantita dal rapporto della Middle East Review of International Affairs: l’Isis avrebbe tra le mani armi chimiche e le avrebbe usate contro Kobane nel primo assalto tentato a luglio. Si potrebbe trattare di armi prese a Raqqa, in Siria, oggi roccaforte islamista, o dal vecchio arsenale di Saddam. A giugno l’Isis aveva occupato la base di Muthanna. Gli Usa all’epoca minimizzarono: i soldati di stanza in Iraq tra il 2004 e il 2010 affermarono che si trattava di armi inutilizzabili, di fabbricazione Usa e vendute da paesi europei negli anni ’80.

Le bruciature sui corpi dei kurdi uccisi a Kobane raccontano un’altra storia. Non le armi per cui Bush lanciò la sua crociata, ma armi con cui l’Occidente rifornì Saddam durante la guerra con l’Iran.