In La filosofia e lo specchio della natura (1979), Richard Rorty chiosa a proposito della differenza tra maiali e koala, indicando la ragione per cui mandiamo al macello i primi e costruiamo società che proteggano i secondi. E se l’assunto a proposito del maiale non è veritiero a ogni latitudine, riguardo i koala ha ragione nel segnalare la modalità con cui – contorcendosi – ricordano comportamenti umani, sofferenza che può rappresentare alla specie umana una richiesta di aiuto. Lamento e lineamenti del viso umanoidi sono la consonanza – tutta antropocentrica – che giunge dalle sponde australiane in cui il koala vive (da Adelaide fino alla penisola di Capo York). Nel senso comune, l’idea che ne abbiamo è esotica e melensa; quando nei mesi scorsi proprio le terre in cui abita hanno preso fuoco, in molti si sono sentiti chiamati a scongiurarne – sia pure da lontano – il rischio di estinzione.

Marsupiali tra i più regali e saggi, sopravvivono ancora e quando non sono costretti in riserve e zoo per il godimento assatanato di tenerezza da parte dei turisti, se la cavano piuttosto bene, tattili e dotati di morbida selvatichezza con cui si arrampicano al mondo. Il loro, di mondo, è fatto di minuscoli nuovi nati alti due centimetri che pesano pochi grammi, dopo una gestazione di trenta giorni restano dentro la tasca della propria madre sei mesi per apprendere la simbiosi che anche nella vita adulta gli sarà utile. Hanno impronte digitali, manto lanoso, quando hanno la fortuna di essere lasciati in pace, profumano di eucalipto – principale alimento.
La pigrizia, diffusa nell’immaginario come cifra del proprio esistere, è il sonno che serve alla loro economia energetica, la stessa che li conduce ad attaccarsi agli alberi, talvolta preferendo le acacie per trovare refrigerio. Sono intelligenti eppure non conoscono strategie complesse, mangiano bevono si accoppiano e quando l’Australia bruciava molti si incrociavano a terra, malandati. Mai però, in condizioni di libertà – che è la loro, non la nostra – camminerebbero per strada, starebbero invece sempre ad altre vette che non ci riguardano, non sanno cosa siano i selfie né si avvicinano di buon grado agli umani se non eterodiretti.

In una intervista di Federica Timeto con Donna Haraway (che fa parte del volume in uscita a giugno per Mimesis Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie) proprio nelle settimane dei roghi australiani, la filosofa dichiara che «Se consideriamo le rappresentazioni mediali degli incendi, appare evidente che ci sono delle specie “carismatiche”, per esempio il koala, che ricevono una notevole dose di attenzione, e questo è senza dubbio ottimo, perché le pratiche rappresentazionali possono anche mirare a coinvolgere emotivamente, e si tratta di animali già molto conosciuti».
Insomma, i canguri sono scattanti e combattenti, i quokka sembra sorridano e i wallaby saltellano; i koala invece, creature notturne e sedentarie, hanno una presa più contemplativa, non sono però desiderabili se non per scopi di puro diletto.
Cosa fa allora il Phascolarctos cinereus tanto da struggere l’umanità se non il gesto più antico che nomina la vita nella sua forma generativa? Insegnano l’importanza dell’abbraccio come pratica di sopravvivenza della specie, la loro ma anche di altre. Non è una interazione sociale né di saluto, difficile stabilire quanto sia affettiva, per noi è invece punto necessario da cui passare per stanare il nostro solipsismo.

Ma sarà davvero così oppure rischiamo di creare dicotomie diminutive dell’aspetto anche biologico e chimico che produce l’abbraccio? Se infatti per i koala è fonte di equilibrio termico lo è anche per noi. Complicato dire se anche a loro, come per noi, si abbassi il valore del cortisolo – ormone dello stress – mentre siamo fra le braccia di un altro corpo. Nemmeno possiamo chiarire in che modo le mani accolgano l’altro vivente in posizioni che più o meno segnalano il tipo di abbraccio.
È però pacifico che l’abbraccio non bari, è uno per loro, si molestano se cinti malamente ed è solo nel contatto di tutto il corpo che si scoprono interdipendenti; offerto all’habitat – possono stare sugli alberi fino a 18 ore al giorno – come ai propri simili – oltre all’accudimento dei cuccioli si accoppiano creando delle forme arrotondate di totale intensità. Attribuire faccende amorose di umano tormento sarebbe una giustapposizione proiettiva; a differenza nostra e di altre specie animali, rifuggono lo scontro fisico con altri maschi; alzano però la voce dichiarando la propria presenza.

Quale sintonia possiamo avere con i koala che interroghi questo presente? Nella grande produzione teorica del cosiddetto «divenire animali» si scardina il movimento secondo cui gli esseri umani vivono appagati di privilegio ontologico. Eppure c’è un distinguo da fare, perché se la decostruzione del paradigma antropocentrico è utile a capire il modo in cui possiamo leggere la vita delle creature animali, è pur vero che alcuni di loro interpellano le nostre profondità non solo emotive. Divenire koala, per esempio, è anche suggestione politica in tempi in cui il distanziamento impone a ciascuno la propria solitudine. Tornare all’osso dello scambio, prevedere la prossimità dell’incontro con l’altro, vuol dire inventare alleanze che possano riferirci il minimo di praticabilità di esistenza, considerare il benessere della vicinanza quando qualcuno si affida all’inermia dell’abbraccio.

Tenere la rotondità del koalizzarsi, infine, serve non come semplice pet-therapy, né all’addomesticamento, ci suggerisce invece la reciprocità di poter essere nucleo relazionale e di guarigione, transitorio eppure esclusivo. C’è una temperatura che anche noi cerchiamo per stare bene e che non sperimentiamo sui rami altissimi, a quelle altezze arrivano i koala, osserviamoli e impariamo pensando altre misure dell’avvicendamento umano.

Nessuna nostalgia di sferi platonici, s’intende, l’ interezza là dove esistesse sarebbe piuttosto noiosa. La condivisione di una vulnerabilità però sì, ci riguarda, insieme ai corpi che non si salvano da soli; tremano e hanno paura fino a quando non ne raggiungono un altro. Si può camminare dentro un abbraccio, nello specchio di una natura molto lontano da quello descritto da Richard Rorty, in cui alla violenza e al pericolo possiamo offrire il farmaco di tenerci stretti, con calore, un po’ koalizzati.

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SCHEDA:

LETTERATURA PER RAGAZZI

Vivere pericolosamente tra eucalipti e foreste di cemento

Fra i classici della letteratura per ragazzi c’è senz’altro Un albero pieno di koala, pubblicato per la prima volta nel 1987 presso Juvenilia. È opera del celebre zoologo, documentarista e presentatore televisivo britannico Gerard Durrell (era nato in India nel 1925 da famiglia inglese e la sua passione per gli animali nacque lì, visitando da bambino uno zoo) che se ne andava in giro per il pianeta alla ricerca delle specie in pericolo di estinzione raccontandone il carattere, i vizi e le virtù, spruzzandole con la dote della sua ironia.
Uscito nel 2019 per Terre di Mezzo c’è anche il poetico Filosofia koala in cui l’autrice francese Béatrice Rodriguez immagina appollaiati su un albero tre personaggi – Koala, Uccellino e Camaleonte – che discettano con grazia su grandi temi come il tempo, l’empatia fra viventi, i propri desideri.
Un giorno da koala di Rachel Bright (illustrato da Jim Field, edito da Zoolibri) narra la vita di un piccolo koala nel bush australiano; se ne sta aggrappato all’eucalipto – luogo di sicurezza – fino a quando un evento imprevisto lo costringerà a vedere il mondo da un’altra prospettiva. L’albo è anche un invito a superare le proprie paure, crescendo insieme agli altri.
In Mio nonno è un koala di Francesca Pirrone (Terra Nuova edizioni) il problema è la perdita dell’habitat e la foresta di cemento che ha sostituito le «case» di questi animali. Nonno e nipote si metteranno a piantare nuovi alberi, aspettando il ritorno di quegli strani abitanti degli spazi verdi e selvaggi. Dove è il mio koala, infine, è un libro tattile per i più piccoli, con materiali diversi da accarezzare (Usborne edizioni), mentre Billy il koala è il film d’animazione di Deane Taylor del 2015 dove il protagonista è un cucciolo impacciato che non disdegna una vita avventurosa. (a. di ge.)