All’ultima Mostra di Venezia ha presentato Voyage of Time: Life’s Journey, i fan sono rimasti delusi eppure in quel viaggio nella storia dell’umanità Malick non si allontana dal sentimento del suo cinema, almeno nei film degli ultimi decenni. Piuttosto è come se svuotandolo del tutto di una «storia», che non sia quella della Terra e delle sue ere, ne abbia voluto mostrare l’essenza, ció che ne anima il movimento e la tensione.

Knight of Cups fa un passo indietro – è precedente, lo avevamo visto alla Berlinale del 2015 – e torna all’umano, col cavaliere di coppe, carta dei tarocchi, di un destino sospeso e fluido, come l’acqua del mare che scivola. La storia è sempre la stessa, un uomo e una donna, una storia d’amore, di guerra, di tradimenti, di conquista, di seduzione. Il cuore di tutte le storie.

E il paesaggio d’America, col suo immaginario, Los Angeles, gli studios hollywodiani fino a Las Vegas, mitologia di celluloide patinata e disperata. A differenza del precedente, To the Wonder, qui il punto di vista è tutto maschile, quello di Christian Bale, una «movie star» che vaga tra le sue infinite esistenze, i personaggi che interpreta, la sua facciata pubblica, i dolori privati.

La voce off racconta una fiaba, il principe che parte per cercare una perla preziosa, e si perde, come Bale in una babilonia di feste, alcol, maschere e risate, la terra trema per il terremoto e l’uomo si risveglia solo. Chi è quella ragazzina con gli occhi troppo grandi, che sull’automobile scoperta gioca col vento? Le donne si susseguono, Cate Blanchett, Natalie Portman, e poi la spirale di feste, di voci, di risate, di musica, di piscine.

Tutto patinato come le pubblicità, Banderas sorride e sembra uscito dal Mulino bianco, la giovane donna è bellissima e il vento agita il vestito agli ordini del fotografo.
Malick, sempre invisibile, possiamo chiamarlo pazzo, genio, visionario, impostore, eppure i suoi film segnano sempre una distanza rispetto a tutto il resto, potenti nel linguaggio visuale che gli permette di essere tutto e il loro contrario. Non è questione di «storia», la vertigine è altrove perché le storie che sono infinite e sempre le stesse sono anche racchiuse in un gesto, pura performance del corpo.

Dalle piscine si finisce negli slum, poveri e spiagge popolari, african american distrutti in quel corpo narrante, e la luce (o il buio) del prete e dei veggenti, dei santoni e del new age. L’America come è o come sarà? Il cinema, che è quel paesaggio che Malick attraversa e se lo lascia alle spalle, la società dello spettacolo e le infinite variazioni delle immagini che si susseguono fino allo stordimento.
Però Knight of Cups non è The Canyon di Schrader e neppure la Mappa delle stelle croneberghiana anche se respira quella stessa tensione, quello stesso modo di interrogarsi sulla macchina dello spettacolo, e sulla sostanza del visibile, in modo totale, dentro al sistema di cui fanno parte, Hollywood e i suoi riti, la geografia dell’immaginario e le sue declinazioni.

Attraverso diversicapitoli, L’uomo, la Luna ecc, Bale attraversa i frammenti di una realtà in un «Addio al linguaggio» (ed è vicino a Godard questo Malick) inafferrabile, e al tempo stesso fin troppo evidente, dove si consuma la narrazione di quelle infinite storie possibili offerte alla scelta del loro demiurgo. Slabbrate e tesissime, come la vita e come un destino che le carte non bastano a rivelare, dopo però non può esserci più altro.

Uomo donna, padre figlio, figlio/figlio fuori e dentro il bordo dell’inquadratura i «ruoli» di Bale si scambiano, o forse rimangono gli stessi, cosi come le sue partner che corrono leggere in riva all’Oceano, nel flusso delle onde, continuo come le immagini che non riescono a fermarle. Rimane soltanto la loro possibile verità e la favola della loro intenzione: c’era una volta.