Nel corso dell’ultimo decennio, il dibattito sui rapporti tra (auto)biografia e romanzo sembra avere ripreso vigore, grazie alla popolarità acquisita da scrittori come Annie Ernaux, Emmanuel Carrère e soprattutto il norvegese Karl Ove Knausgaard, che hanno rivendicato spazio al resoconto della propria vite superando, se non cancellando, le barriere tra storia e racconto, tra intimità e esposizione.

Al di là delle innumerevoli etichette usate per tentare di definire questo genere di scrittura –- da auto-fiction a non-fiction a post-fiction – il vero punto in comune tra molti scrittori dediti al genere, sembra la convinzione che nomi e cognomi anagrafici realmente esistenti si prestino a suggellare meglio il mixage di realismo e costruzione narrativa.

Per la scrittura di Knausgaard, forse l’autore che più ha alimentato questo dibattito grazie al suo Min kamp (La mia battaglia, stesso titolo dell’autobiografia politico-ideologica di Hitler), sono state coniate definizioni fantasiose, da «centauro letterario» (un corpo romanzesco con una testa autobiografica) a «fiktionsfri fiction», una sorta di fiction senza invenzione.
La maratona autobiografica di Knausgaard (sei volumi per un totale di circa 3.600 pagine, scritte nell’arco di poco più di tre anni) è stata pubblicata in Norvegia tra il 2009 e il 2011, ottenendo un successo esagerato: anche grazie allo scandalo sollevato dall’esposizione pubblica di vicende private, non solo dell’autore, ma di tutta la sua famiglia, il libro ha venduto una copia ogni dieci abitanti circa, e nei mesi successivi alla pubblicazione dei primi volumi è stato necessario stabilire giornate «Knausgaard-free».

Il realismo dei veri nomi
In Italia, dopo un tentativo di Ponte alle Grazie nel 2010, abortito dopo i primi due volumi, l’intera serie è stata pubblicata da Feltrinelli a partire dal 2014, sulla scia dell’interesse internazionale scatenato dalla traduzione inglese, che aveva raccolto critiche entusiastiche su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ora anche in Italia è disponibile l’ultimo volume della serie, Fine (traduzione di Margherita Podestà Heir, Feltrinelli, pp. 1277, € 27,00) in cui Knausgaard osserva l’intero ciclo dall’esterno, a mo’ di ideale ricapitolazione del suo monumentale progetto, i cui titoli precedenti erano stati La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere.

Da un lato, per la verità, lo scrittore norvegese mantiene ancora il fuoco su di sé, raccontando gli effetti dell’uscita dei primi volumi sulle persone che vi compaiono, dalla reazione aggressiva dello zio Gunnar, che al vedere descritto suo fratello come un alcolista e sua madre come affetta da demenza senile minaccia (e poi attua) la convocazione di Knausgaard in tribunale, a quella autodistruttiva della moglie Linda, precipitata in una crisi bipolare; dall’altro, l’autore assume un orientamento meta-autobiografico, spiegando, giustificando e valutando il progetto che ha occupato quasi integralmente quattro anni della sua vita. «Quando le cose stanno così – scrive – cioè che tutto è finzione o viene recepito come tale», il compito di un romanziere non può risolversi nell’aggiungere altra finzione: un suo romanzo, dunque, deve «parlare della realtà, come era veramente, vista da una persona che vi era imprigionata con il corpo, ma non con la mente… E il segno stesso di questa realtà, la sua unica dimensione trasmissibile, era il nome».

In queste righe c’è tutto Knausgaard: l’ossessione per la sequenza dei minimi dettagli che restituiscano quella che ritiene essere la verità su se stesso e sulle persone a lui vicine, sebbene questa sia più o meno potenzialmente in conflitto con la verità dei rappresentati; l’immersione ottenuta attraverso l’elenco minuzioso, per alcuni forse snervante, di minimi gesti quotidiani – «Asciugai il pavimento con l’asciugamano usato prima di stenderlo sul bordo della vasca, andai in cucina, accesi il bollitore, misi un po’ di Nescafé nella tazza e guardai fuori dalla finestra mentre aspettavo che l’acqua bollisse», e così via; la libertà di divagare per pagine e pagine sulla religione o la storia, sull’arte o la letteratura; e infine la difesa della propria scelta più controversa, quella – appunto – di usare i nomi veri in quanto funzionali alla sua strategia di adesione alla realtà.

Sebbene a tutti i «personaggi» sia stato permesso di leggere il manoscritto prima della pubblicazione per dare o negare l’assenso a comparirvi, lo stesso Knausgaard è consapevole delle complicazioni emotive intrinseche alla sua scelta: «Mentre scrivevo non pensavo a loro (le persone a cui ero stato vicino) ma non appena si avvicinava la data di pubblicazione comparivano di colpo nella mia mente in tutta la loro pienezza e con la loro personalità e proprio per questo, per ciò che erano, diventavano palesi ai miei occhi le conseguenze del mio agire…. Il metodo che scelsi fu quello di pubblicarli, di lasciare che le conseguenze si manifestassero, con tutto il dolore che questo implicava e di cui io ero il responsabile… Ero in grado di difendere quella scelta e quel metodo in generale, perché sapevo cosa cercavo e il suo valore intrinseco, ma non potevo farlo nello specifico, quando si trattava delle conseguenze che riguardavano ogni singola persona di cui scrivevo». La soluzione del dilemma sarà determinata: «per scrivere bisogna essere liberi, e per essere liberi bisogna essere privi di riguardi».

Del resto, in tutti e sei i volumi di Min kamp, Knausgaard infrange consapevolmente il patto tra scrittore e lettore, quello da cui si pretende che quanto si trova scritto non venga ricondotto «alla sua persona privata». Il patto autobiografico teorizzato da Lejeune non gli bastava più ed egli già lo infrange pretendendo la parola «romanzo» su tutte le copertine dell’edizione originale (mentre quella americana prima e la Feltrinelli poi l’hanno eliminata, calcando ulteriormente la mano sull’ambiguità del testo). L’epilogo di questo doppio gioco tra trasgressione alle leggi del romanzo e fedeltà al vero vede tuttavia Knausgaard registrare uno scacco: «Era un esperimento ed è fallito, perché neppure una volta mi sono avvicinato a ciò che sento e penso veramente, né tantomeno sono riuscito a descrivere quello che ho visto».

Alcune limpide concrezioni
Ancora più dei precedenti, Fine è pervaso da un afflato filosofico e da una pretesa di universalità che si esprime attraverso lunghe digressioni sugli argomenti più disparati: sono almeno una ventina gli scrittori di cui analizza un’opera o una loro peculiarità, da Shakespeare a Handke, da Hölderlin a Joyce, fino alle oltre cinquanta pagine dedicate a una poesia di Paul Celan. Più di un terzo del libro è una sorta di saggio scaturito dalla lettura (nel 2011, mentre scriveva a ritmi forsennati l’ultimo dei sei volumi dell’omonimo romanzo) del Mein Kampf di Hitler: di questa riflessione sul rapporto individualità e collettività, tra nome e numero, il risultato finale è al tempo stesso uno zibaldone, un saggio, un diario, un making of.

In un tale materiale grezzo, tradotto in ipertrofia della scrittura, il lettore rischia di perdersi ed è un peccato, perché all’interno del magma di parole, idee e immagini – peraltro a tratti opacizzato da una cura editoriale non all’altezza – all’improvviso emergono limpide concrezioni, pressoché perfette.