Invece di salire la solenne scalinata progettata nel 1877 da Jean Jacques Winders e Frans Van Dijk, per entrare nel Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen, il più bel museo delle Fiandre, oggi si deve passare da una porticina nell’angolo a sinistra, che immette in uno spazio angusto e bianchissimo, che sembra la sala d’attesa di un salone di bellezza. Preso il biglietto e depositate le borse, si sale per una scaletta a chiocciola che immette finalmente nell’immenso atrio che ben ricordavamo da una visita di una ventina di anni fa. Ma l’illusione di aver ritrovato il magnifico museo che conoscevamo dura poco. Appena varcato l’ingresso si viene inghiottiti da un immenso spazio bianco, uno scatolone calato dentro l’antico cortile interno dell’edificio, su progetto dello studio KAAN Architecten di Rotterdam.

Per ben undici anni il KMSKA è infatti rimasto chiuso a causa di questa impressionante ristrutturazione che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe proiettarlo nel futuro. «Luce» è il nome assegnato a questa addizione monumentale. E il nome non deriva dall’effetto abbagliante dei muri e del pavimento realizzato in poliuretano lucido di questo white cube ipertrofico. «Luce» è proprio il tema della sala, antipasto della nuova organizzazione museale con cui si è voluto rivoltare come un calzino il KMSKA. Il Sedici settembre di Magritte se la deve così vedere con l’Adorazione dei pastori di Jacob Jordaens, la Donna che si pettina di Degas con un Calvario su fondo oro di un anonimo di fine Trecento. Non si comprende bene con chi se la debba vedere invece l’enorme Freia’s Garden di Anselm Kiefer, appeso ad altezza siderale: il tempestoso impasto materico della sua pittura conferma di essere piuttosto impermeabile alla luce.

Nell’insieme l’effetto è un po’ quello di una mostra tematica improvvisata, dove le opere vengono tirate per i capelli e costrette a dialoghi improbabili. Una centrifuga visiva di cui alla fine restano solo impressioni confusissime senza possibilità di organizzare un qualunque pensiero degno di questo nome.
Una lunghissima scala stretta a rampa unica di 98 gradini, ribattezzata un po’ sadicamente Stairway to Heaven, porta al piano alto della nuova addizione. Qui, sempre immersi in un bianco esagerato, si può scegliere tra un’ala che ha per tema la «Forma» e un’altra invece dedicata al «Colore»: due categorie tanto generiche che potrebbero abbracciare qualunque opera; e ogni opera potrebbe passare da una sezione all’altra senza creare scompensi.

Ma la prova più dura ci attende quando si passa negli spazi del vecchio museo, conservati nella loro magnifica solennità. Qui il gioco per categorie tematiche continua, con il risultato di smembrare la straordinaria raccolta del museo in un percorso concepito come un parco giochi per visitatori, cui non si dà evidentemente più nessun credito di capacità critica e culturale. È la convinzione di Nico van Hout, curatore e responsabile della collezione, che ha motivato in questi termini la scelta di riorganizzare il museo con una sequenza di sale tematiche a volte al limite della bizzarria: «L’esperienza ha dimostrato che la conoscenza storica delle persone sta diventando meno completa e non possono facilmente collocare nel tempo figure chiave come, ad esempio, Carlo V o Napoleone. Lo stesso vale per la conoscenza degli stili artistici, come il gotico, il rinascimentale e il barocco». Ragionamento paradossale che di fatto svuota la ragion d’essere dell’istituzione museo, che dovrebbe essere proprio quella di accompagnare le persone a colmare questo gap e approfondire e indagare i nessi storici, le evoluzioni stilistiche, i cambiamenti del gusto. La prospettiva storica, invece, viene spazzata via e rimpiazzata con lo storytelling sulle opere, che è una riduzione ad aneddoto della meravigliosa e misteriosa complessità che le caratterizza. È vero che in questo modo ci si mette al riparo dai soprassalti della cancel culture e dagli imbarazzi che a volte genera. Ma a che prezzo? Al prezzo di svuotare il museo di ogni autorevolezza, di disinnescarne il fascino e di appiattirne il profilo a livello di una multisala cinematografica di provincia.

È proprio questa la dimensione che si sperimenta nel nuovo percorso del KMSKA quando ad esempio mettiamo piede nella sala della «Impotenza». Sotto questa etichetta viene proposto il ritratto del delfino Francesco, figlio di Francesco I, opera di Jean Clouet «impotente» in quanto non divenne mai re essendo morto a 18 anni. Ed è ugualmente catalogato come «impotente» Pierre de Wissant, uno dei borghesi di Calais, dal celebre gruppo scolpito da Rodin, che in realtà con il loro gesto ottennero l’obiettivo: la salvezza loro e della città. Ma che ci fa in questa sala il Kings of Egypt, grande quadro del 1982 di Basquiat, in prestito dal Bojimans Van Beuningen di Rotterdam? È una bomba di energia che sembra lì lì per deflagrare. Non si coglie davvero alcun sintomo di impotenza, a meno che non si voglia far riferimento alla tragica biografia dell’artista, con un salto logico dal soggetto all’autore che alimenta ulteriore confusione.
Il percorso prosegue passando da sale più effimere come quella dell’«Abbondanza» e quella dello «Svago», a sale più ingaggiate come quella del «Male» o la successiva della «Sofferenza». In questi due casi gli accostamenti sono meno aleatori e «funzionano» meglio sul piano dell’efficacia emotiva: il Calvario, capolavoro di Antonello, dialoga con la verticalità spinta dello Schmerzensmann I di Berlinde de Bruyckere; e L’uomo dei dolori di Ensor si specchia nel Cristo incoronato di spine di Albrecht Bouts con il quale è chiamato a formare un dittico. Anche l’opera-icona del museo, la Madonna circondata da Cherubini e Serafini, gioiello iperreale di Jean Fouquet, è collocata in un contesto dove si cerca di rispettare una coerenza iconografica: nella stessa sala convivono infatti la Madonna della fontana di Van Eyck e la Madonna del pappagallo di Rubens. L’immancabile upgrade contemporaneo è affidato a un’opera di Marlene Dumas, che ci può stare, e a un volto, Der diagnostische Blick IV di Luc Tuymans, che non si capisce davvero quale nesso abbia.

Sono sale che in questi due casi e in pochi altri potrebbero funzionare se fossero pensate come allestimenti temporanei per provocare corto circuiti tra opere della collezione e risvegliare l’attenzione dei visitatori. Invece nel loro essere soluzioni definitive sanciscono il fatto che l’approccio conoscitivo è stato scalzato a scapito di quello emotivo. Il museo diventa spazio esperienziale, e non importa se si va incontro a una drammatica degradazione del concetto di esperienza. È quello che accade con la scelta surreale di ingombrare dieci sale con le installazioni di Christophe Coppens che trasformano in gioco per bambini (ma non solo per loro: siamo di fronte a un processo di infantilizzazione del visitatore) alcuni dettagli dei quadri. L’obiettivo dichiarato è trasformare la visita in «un’esperienza giocosa e avventurosa». La mano arcigna del San Gerolamo di Van Reymerswaele, ad esempio, dà pretesto a una gigantesca e rumorosa mano rotante che pende sopra la nostra testa.

Quando alla fine del percorso-giostra ci si affaccia sull’antico scalone rimasto fortunatamente intatto, con l’apparizione delle grandi tele di Nicaise De Keyser, si tira un sospiro di sollievo. Sono degli omaggi agli artisti che hanno lavorato ad Anversa ma non solo a loro, realizzati intorno al 1870 per l’apertura del museo. Per quanto vagamente kitsch, sono il miglior storytelling a cui abbiamo assistito.