Innanzitutto l’autore. Alexander Kluge è uno dei più importanti registi tedeschi del dopoguerra, iniziatore, insieme a Wenders, Herzog, Fassbinder (per non citare che i più noti), del cosiddetto «nuovo cinema tedesco». In secondo luogo il titolo: Antico come la luce Storie del cinema. Il titolo originale – la bella traduzione italiana di Simone Costagli, da poco uscita per i tipi de L’Orma Editore (pp. 288, euro 18,20) , riprende un volume pubblicato in Germania da Suhrkamp nel 2007 – suona più semplicemente Geschichten vom Kino: «Storie del cinema», o (con una leggera forzatura) «Storie dal cinema». Kluge, in effetti, rivendica il carattere frammentario, variegato, letteralmente «polifonico» del suo libro. O meglio, nella breve Premessa difende tale carattere nel cinema: «Della breve storia di questa tecnica (così recente da non essere più vecchia di mia nonna) amo in modo particolare i primordi: la cosiddetta Primitive Diversity (“molteplicità primitiva”), che si fonda sull’autonomia degli elementi filmici, è anarchica; è cinéma impur. Dedico le mie storie a questo adorato ermafrodito, misto di caso, precisione (si veda più avanti: l’accuratezza del proiezionista Sigrist), genio, incompetenza, e fortuna. È quello che, con il senno di poi, chiamiamo cinema».

Questa dedica condensa l’atteggiamento di Kluge verso l’oggetto del suo libro (e del lavoro di una vita). Il cinema «ermafrodito» è un oggetto di cui non è possibile definire assiomaticamente regole di produzione e norme di giudizio. Per narrare un soggetto del genere si deve adottare una strategia molteplice. Le «storie» raccontate dal regista tedesco non solo non sono una ‘storia del cinema’, ma non sono nemmeno solo i ricordi autobiografici di un importante autore. Nel libro c’è anche questo, oltre ad aneddoti godibilissimi, come la pellicola di un cortometraggio che Fassbinder avrebbe voluto distruggere perché vi recitava il suo ex amante e fu salvata dall’addetto alla distruzione. L’ultimo capitolo del libro, «Nessuno vuole starsene seduto al buio davanti al televisore», ad esempio, è interamente dedicato alle vicende personali di Kluge. Il libro segue però un andamento felicemente irregolare e variegato, andando avanti e indietro nella storia (e nelle storie) del cinema.
I precedenti sei capitoli sono dedicati a una ricognizione della storia del cinema, per costruire la quale l’autore inventa un dispositivo narrativo piuttosto complesso. Non ci sono solo i ricordi. Ci sono gli aneddoti sulla storia del cinema. C’è perfino un profilo finzionale, che emerge tra le righe senza nemmeno dichiararsi. In alcune pagine il narratore assume la voce dei personaggi delle sue storie: operatori della macchina da presa, cassieri dei cinema degli esordi, improbabili sceneggiatori e registi che immaginano il salto dall’avanspettacolo alla nuova forma espressiva. Per questo, siamo di fronte a «storie del (dal) cinema» – l’abilità narrativa di Kluge fa sì che il lettore abbia l’impressione che chi scrive sia solo l’intermediario di pezzi che si staccano dal corpo vivo del cinema – che non delineano una «Storia» definitiva. Un interesse particolare va ai primordi del cinema (i fratelli Lumière, i primi esperimenti di Edison), alle avanguardie storiche (con un’attenzione particolare al cinema espressionista tedesco), fino alle vicende del secondo dopoguerra, che riguardano direttamente le esperienze e il lavoro del regista tedesco, i dibattiti e le imprese cui ha preso parte.

A questo punto occorre indicare almeno alcune delle linee principali lungo le quali si sviluppa il corpus di storie congegnato da Kluge. Innanzitutto la luce, che compare nel titolo italiano del libro: Antico come la luce. Qui Kluge incrocia la prospettiva di un cinema scientifico, ripercorrendo gli esperimenti di alcuni precursori del cinema, Edison in testa con la sua «cinepresa solare Giove». Il macchinario, un’enorme macchina da presa puntata verso il cielo, avrebbe dovuto riprendere e mostrare un’eclissi di sole, catturando il momento (quasi impercettibile) in cui l’ultimo spicchio del disco solare scompare dietro la Luna. Lo spettacolo – Kluge non si stanca mai di ricordare che questa impresa, tutta l’impresa del cinema, è attraversata da una spinta di fondo verso lo spettacolo – non ebbe successo. Edison attribuì il fallimento al fatto che non era possibile far vedere «la luce in sé». Si tratta di un concetto troppo vago per il pubblico. Piuttosto, bisognava studiare come far vedere le cose attraverso la luce, con una mezzo tecnico capace di riportare, non in una singola immagine fotografica, ma in una serie di «immagini in movimento», i fenomeni di ogni sorta: tutto ciò, verrebbe da dire, che avviene sotto il sole. È questa, per Kluge, la nascita del cinema.

Per il regista di Artisti sotto la tenda del circo: perplessi questa esigenza di catturare la luce, e con essa risalire a una visione primigenia del mondo, che il cinema rappresenta in modo così forte, corrisponde a un bisogno profondo e, appunto, antico dell’umanità. È la storia di Eberty, che nel 1846 immagina (a ragione) che si possa vedere la storia dell’universo attraverso i raggi di sole che corrono nel cielo: una «SEQUENZA DI IMMAGINI IN MOVIMENTO» celeste. A questo sogno – che si tinge dei colori del mito – l’uomo ha da sempre desiderato che una qualche tecnologia desse realizzazione. È nella tensione tra il polo di una cinema assolutamente ‘scientifico’ e un cinema di spettacolo che Kluge costruisce non solo il suo dispositivo narrativo, ma anche e soprattutto un’implicita ‘filosofia della storia’ del cinema – non c’è nel libro, come si è detto, una storia ‘storiografica’ del cinema, ma c’è il tentativo (riuscito) di offrire al lettore una bussola per orientarsi nel corpo ermafrodito del cinema.
La filosofia della storia del cinema abbozzata da Kluge si regge attorno a un principio, il quale tiene insieme il cinema-scienza e il cinema-spettacolo sopra evocati. Questo principio – siamo noi a ritrovare le linee di tendenza del discorso – è enunciato due volte, secondo due formulazioni distinte. La prima volta, quando l’autore afferma che si dà cinema quando ci sono «tre macchine». La prima è la macchina da presa strettamente intesa. La seconda è la sala – oggi, con Francesco Casetti, dovremmo parlare di «rilocazione dell’esperienza filmica». La terza è il pubblico stesso: solo quando il film comincia a progettare il suo spettatore, si dà cinema, vale a dire un certo modo di vedere il mondo, il quale sfugge alla pura e semplice «riproducibilità tecnica» e diviene, invece, per usare le parole di Pietro Montani – il quale dà questa definizione per i nuovi device interattivi, istituendo il collegamento tra questi e il cinema – una «tecnologia della sensibilità».

La seconda definizione che Kluge dà dello sguardo cinematografico riguarda il documentario – cosa che ci sembra significativa oggi che esso ci appare quanto mai creativo e capace di mettersi in dialogo con i nuovi dispositivi dell’immagine (smartphone, videocamere di sorveglianza, web, ecc.). Ripercorrendo le sue esperienze, Kluge suggerisce che «l’uomo con la macchina da presa» ha sempre «diciotto secondi di anticipo», i quali gli consentono di esercitare una «precognizione», potremmo dire un’anticipazione della realtà. Il cinema esercita uno sguardo creativo sul mondo. Non per raccontare storie, ma perché è la condizione per trarre dal mondo esperienze significative. Ma significa anche che il cinema differisce indefinitamente il giorno in cui vedremo nel cielo lo spettacolo finale del mondo.