L’opera di Max Klinger rappresenta uno snodo fondamentale dell’arte europea tra Otto e Novecento, una proposta per molti versi innovativa, che seppe farsi interprete del proprio tempo, un periodo di grandi e veloci trasformazioni verso la modernità, ma anche carico di tensioni, inquietudini e premonizioni di futuri incerti.
Incentrata sulla produzione grafica del maestro di Lipsia è l’importante antologica Max Klinger Inconscio, mito e passioni alle origini del destino dell’uomo – allestita al Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo (fino 13 gennaio) a cura del direttore del museo Diego Galizzi insieme a Patrizia Foglia –, una delle più importanti mostre mai svolte in Italia sull’attività grafica di Klinger, realizzata nella convinzione che proprio a partire dalle incisioni è possibile penetrare nell’immaginifica mente di questo straordinario artista. Dopo le recenti mostre su Goya e Chagall continua così l’esplorazione del mondo della grafica artistica di questo piccolo museo civico romagnolo, ricco di un’importante collezione di stampe e protagonista negli ultimi anni di una pregevole attività di valorizzazione del linguaggio incisorio.
Erede di secoli d’arte, «artista moderno per eccellenza», come scrisse Giorgio De Chirico, pittore, incisore, scultore, teorico, musicista, Klinger è una personalità difficilmente inquadrabile, che ci ha lasciato opere difficili da inquadrare, in cui ha fuso motivi contrastanti e stranianti, recuperando temi dalla grande tradizione rinascimentale italiana rivisitati alla luce della cultura tedesca e delle tensioni sociali dell’epoca. Accanto a questi temi, che lo videro inserito a pieno titolo nel dibattito culturale di quegli anni, nel suo universo iconico Klinger diede voce al mito, rappresentato come un mondo allegorico capace di prefigurare il dramma esistenziale dell’uomo, condannato a un destino segnato.
Straordinarie le sue creature fantastiche, che animano un mondo in bilico tra realtà e sogno; profonda la sua lettura della contemporaneità, del rapporto tra i sessi, del ruolo della donna, artefice di quel peccato originale che sin dagli albori ha segnato l’uomo nel difficile cammino della salvezza. Le sue opere hanno come protagoniste anime in travaglio che si lasciano travolgere dalla passione, in una natura panica di chiara ripresa romantica. I paesaggi sono popolati da centauri, naiadi, tritoni, animali e mostri marini; la sua è un’arte che unisce mitologia e modernità, in un tempo archetipico nel quale all’episodio è conferita una dimensione universale. Fu proprio questa fusione tra echi antichi e sintonia col contemporaneo ad affascinare De Chirico, che apprezzava in Klinger la particolare capacità di farsi interprete allo stesso tempo del «senso mitico-ellenico» e del «senso romantico-moderno».
Klinger si pone a cavallo tra mondo interiore e realtà, in un dialogo tra un dentro e un fuori che è motivo del suo genio creativo. Nelle sue incisioni l’inconscio irrompe nella realtà impadronendosene e divenendo così tangibile. Influenzato da Arnold Böcklin, dal quale mutuò quel dissidio tra amore e morte che è tra i temi privilegiati del suo percorso creativo, guardò con ammirazione all’arte sorella, la musica, nel tentativo di dare vita all’opera d’arte totale perseguita da Wagner; grande amico di Brahms, per il quale ideò delle «mirabili fantasie», ebbe rapporti con Mahler, Strauss, e ammirò Schumann e Beethoven.
Ma Klinger fu soprattutto un maestro nell’arte dello stilo, o Griffelkunst, definizione da lui stesso coniata nel trattato Malerei und Zeichnung, appassionata arringa a favore dell’emancipazione del disegno e dell’incisione dalla qualifica di arti secondarie, attribuendo loro non solo piena dignità tra le arti ma un ruolo privilegiato nella rappresentazione della «metà oscura del mondo». Con la sua impalpabile corporeità, la linea spalanca infatti spazi enormi alla libertà interpretativa, per questo è il mezzo ideale per esprimere l’immaginazione, l’onirico, l’allegorico, il fiabesco, ma anche le pulsioni sotterranee del mondo e dell’individuo, le angosce, le paure e per certi versi le premonizioni di cui l’artista si fa portatore di fronte al lato drammatico dell’esistenza.
Klinger riconosce alla Griffelkunst il ruolo di arte autonoma, definitiva, pienamente compiuta, a patto però che non rinunci alle proprie specifiche potenzialità espressive. È una sorta di manifesto del suo modo di operare col mezzo grafico, che fa di lui una personalità chiave dell’incisione moderna, anche sul fronte del riconoscimento della dignità professionale dell’incisore: «è perfettamente verosimile che un artista svolga la propria esistenza professionale interamente nel senso del disegno e delle tecniche ad esso connesse, senza per questo risultare di minore importanza se confrontato a pittori, scultori, architetti o altro». In quest’ottica egli pone se stesso in ideale continuità con Albrecht Dürer, a cui attribuisce il ruolo di padre nobile dell’affrancamento del disegno da una lunga segregazione, e con altri artisti che «devono la loro grande fama quasi esclusivamente a incisioni», come Martin Schongauer, Francisco Goya e Adolph Menzel.
Attraverso gli undici cicli grafici esposti – dei quattordici realizzati complessivamente dall’artista – il percorso espositivo invita a entrare in mondi fantastici nati da leggende antiche, in cui si sentono gli echi di un romanticismo visionario, di un simbolismo inquieto e di innumerevoli citazioni letterarie e riferimenti autobiografici.