La musica, da che mondo e mondo, è gioia e condivisione. Non è mai stata né separazione né conflitto, anche nelle sue esperienze radicali. Se gli stragisti del Bataclan come i kamikaze che si lasciano esplodere nei mercati e nelle piazze, irachene, turche, libanesi, africane, uccidendo uomini e donne inermi, spegnendo per sempre il loro vociare per Glenn Gould fascinosamente “contrappuntistico”, avessero ascoltato più musica che sballate teorie propagandistiche forse avrebbero imbracciato altri strumenti e a mitragliare non sarebbe stato un kalaschnikov ma le note di un contrabbasso. Nessuno sarebbe rimasto schiacciato a terra e tutti avrebbero continuato a ballare: e a ridere di sé e della vita.

Di ciò sembra parlare, in questa domenica di novembre che ha recuperato, dopo le carezze primaverili dei giorni scorsi, la logica metereologia stagionale nebbiosa e grigia, il cartellone degli Aperitivo in concerto del Teatro Manzoni di Milano, giunti alla loro trentunesima edizione. E a farsene portavoce, dopo il successo la scorsa domenica di Yemen Blues, sono stati i messicani Klezmerson che con ironia hanno saputo far conoscere con aperture inedite la tradizione musicale ebraica al metissage più complesso e fascinoso della contemporaneità americana attraverso un concerto che in alcuni punti ha raggiunto un elevato tasso di creatività, raramente ascoltato negli ultimi tempi.

Per la prima volta in Italia, i Klezmerson, guidati dal multistrumentista Benjamin Shwartz, è un settetto figlioccio di quel genio musicale multitasking che è John Zorn, guida spirituale più che viva e vegeta della rassegna diretta da Gianni M. Gualberto, e su di lui hanno centrato la loro intera esibizione. Ad una prima parte interamente dedicata alla musica del loro mentore – riprendendo come fosse una suite il loro ultimo album, prodotto peraltro e non solo composto da Zorn, Amon dal Book of Angels vol. 24 – è seguita una seconda che esaltava le singolarità artistiche del gruppo, affidata soprattutto a composizioni del secondo e terzo album, come Seven”, Supersticion, Augmented e No es por nada, riprese anche nel “Live” di tre anni fa .

Dunque, si è assistito ad una sperimentazione – se si può dire per comodità – di matrice etnojazz della band messicana che ha trovato fecondi rapporti tra la tradizione klezmer e i ritmi latinoamericani, caraibici, tropicalisti, flirtando persino con il prog-rock più trasversale, tanto che alcuni passaggi strumentali delle composizioni meno recenti s’addensavano all’ascolto come calchi dello Zappa di metà anni settanta, dei Jethro Tull meno frequentati (sarà per l’uso “percussivo” del flauto utilizzato da Maria Emilia Martinez) e della Mahavishnu Orchestra. Fabio Francione