Racconta Pierre Boulez che per la verità, al primo incontro (a una mostra di Christian Zervos, nel 1947), tutta questa impressione Klee non gliela fece: l’occhio lo rubavano quadri ben più grandi. Nel ’46 ricordava André Masson come per molti i suoi non fossero che «francobolli». Ma, aggiungeva, «la cattiveria della pulce è tale che ne basterebbe una delle dimensioni di un cavallo per devastare la Gran Bretagna». A guardia del famoso saggio su di lui, nel ’41, Clement Greenberg aveva posto un esergo da Kant: «il bello può essere piccolo». Perché, prosegue Boulez, dopo quella prima impressione agisce «una forza che costringe a riflettere», si comincia a osservare le sue figurazioni «in avanti e indietro, da un piano all’altro». Sino a finire attirati, dal cosmo di Klee, come dalla tela di un ragno stellare.
È quello che capita nel visitare la grande mostra Paul Klee Konstruktion des Geheimnisses (a cura di Oliver Kase, alla Pinakothek der Moderne della «sua» Monaco di Baviera, sino al 10 giugno; catalogo Hirmer anche in inglese, pp. 456, euro 50,00). Dopo averle viste tante volte riprodotte in tutte le salse (e tutti i formati), d’improvviso tocca sintonizzare l’occhio su tele, quasi tutte, di meno di trenta centimetri. S’era andati poi senza grandi attese, live, da un pittore così bidimensionale. E invece, appena entrati, si viene catturati non solo dalla texture dei fantastici fondi-polvere, certo memori della Tunisia del ’14, ma anche dal grattare da bisturi dei disegni, degli appunti, degli schemi (nessuno ha mai tracciato schemi, come i suoi, euritmici, flessuosi, sensuali).
La mostra racconta tutto, ci mancherebbe, incrociando la cronologia con «spiazzi» tematici, o piuttosto concettuali, che di ogni tema mostrano la libertà sfrenata di accordi, variazioni, sviluppi (gli autoritratti-Dürer, certo – ma il mio preferito è Il fantasma di un genio, ’22: un bambino troppo cresciuto, la testa inclinata, non capisce cosa stia succedendo –, il tema dell’ascesa-ascesi – colle scale di Giacobbe, le stelle di Davide in cielo –, le architetture di sogno come la Casa girevole del ’21). Non si smette di tornare sui propri passi, in una danza del cervello che, a un certo punto, viene da pensare sul serio che potrebbe non finire mai. È come se al perpetuum mobile Cherubino, nelle Nozze di Figaro, non toccasse mai fare i conti con chi lo vuol spedire in guerra; e «notte e giorno», invece, potesse continuare all’infinito «d’intorno girando / delle belle turbando il riposo».
E invece il mondo storico, a Klee, più volte presentò il conto. All’inizio del ’15 annota: «Credevo di morire, tutt’intorno guerra e morte. Ma posso morire, io, un cristallo? Per aprirmi un varco fra le mie macerie, era necessario volare. E volato ho infatti. In quel mondo in rovina sono “astratto nei ricordi”» (in guerra dovrà andarci pure lui; ma riuscirà a imboscarsi, scritturale in un campo d’aviazione; non uguale fortuna toccò all’amico Franz Marc, nel ’16 caduto a Verdun). Rare volte il moto dell’astrazione è stato esposto con così precisa cognizione della pesanteur storica, esistenziale, psicologica. E mai, forse, rilanciato a superarla con tale cristallina felicità mentale. Anche nei momenti più cupi (quando, lasciata la Bauhaus per l’Accademia di Düsseldorf, preda della sclerosi, la marea nazista lo fa riparare nella Svizzera dove era nato, e dove morirà nel giugno del ’40), mai smette il suo gioco col mondo. Uno degli ultimi lavori, un carboncino appunto del ’40, ha per titolo La luna giocattolo. Klee non può aver visto Il grande dittatore di Chaplin (che uscirà in ottobre), ma ricorda la scena d’incanto in cui il dittatore Hynkel, tornato bambino, danza col mappamondo luminoso.
Non può finire, la danza, perché mai s’interrompe la musica della mente. Era tipico del suo tempo il «girotondo delle muse», ma nessuno come Klee si è posto all’incrocio di tutte le arti. Davvero, come diceva Greenberg, «il più filosofico, il più lirico e musicale di tutti i pittori moderni». Scrittore instancabile, era soprattutto alla musica che s’ispirava. Figlio di due musicisti, sposato con la pianista Lily Stumpf, Klee non smetterà mai di suonare il violino cogli amici. Le pagine splendide che gli ha dedicato Boulez (Il paese fertile. Paul Klee e la musica, traduzione di Stefano Esengrini, ora riproposto da Abscondita, pp. 133, € 19,00) sono un modello di rigore nei confronti della tentazione di «stabilire paralleli fra mezzi di espressione diversi»: la «reciprocità, se non proprio l’influenza fra i due mondi non avviene mai sullo stesso piano»; una sfasatura, un anacronismo, un errore di coincidenza salvano dal kitsch dell’illustrazione. Ciò non toglie che Klee abbia anche «illustrato» alcune sue passioni di esecutore e ascoltatore (nonché fan: come del soprano-coloratura Hermine Bosetti, per la quale aveva un’autentica ossessione).
Lo si vede in un’altra mostra, più piccola ma deliziosa (oltreché a ingresso gratuito, ma con catalogo solo in tedesco), sempre a Monaco, giusto dall’altra parte della strada (alla Galerie Thomas sino al 12 maggio, a cura di Christine Hopfengart), Paul Klee Musik und Theater in Leben und Werk. Oltre agli immaginari Strumenti per la musica contemporanea (come la Macchina per cinguettare, che a Boulez fa pensare a Kafka), sorprendono le marionette per micro-teatri da camera, e poi le tante evocazioni della musica buffa: Così fan tutte è il suo elemento. (In quella pagina di diario del ’15 si legge anche: «Mozart, senza avere una chiara visione del suo “inferno” [scritto in italiano], si salvò nella parte gioiosa dell’essere».)
Ha ragione Boulez, comunque. La vera «transustanziazione» fra due linguaggi non può passare che dai rispettivi procedimenti. Per esempio Klee e Webern, che in vita s’ignorarono, hanno lavorato entrambi per «piccoli impulsi, impulsi colorati in pittura, ritmici in musica». Per questo hanno prodotto in piccolo: il loro pointillisme è strutturale (Klee pensa ai mosaici di Ravenna) e per questo i loro «francobolli», considerati da vicino, contengono interi universi. La «poetica della freccia» di Klee disegna un cosmo in cui nessuna forma riposa in sé stessa, per invece generarne sempre di ulteriori: come la vita delle piante secondo quel Goethe a cui Webern, dice Boulez, «fa costantemente riferimento e a cui Klee si avvicina quando esamina la metamorfosi delle piante». È un modo romantico, certo, di guardare alla natura naturans come a un tutto, la cui parte visibile ricapitola l’invisibile che la prefigura (un «freddo romanticismo», definiva Klee l’astrazione).
Nel catalogo della Pinakothek – a partire da uno dei quadri più belli, Limiti della ragione del ’27 – Stephen H. Watson spiega come il pensiero-figura di Klee mai abbia smesso di interrogare il pensiero-poesia di Novalis. Sicché quanto mai opportuna giunge la prima edizione italiana dei Discepoli di Sais appunto di Novalis (a cura di Giampiero Moretti e Stefano Esengrini col saggio citato di Masson, Morcelliana, pp. 129, € 13,00), in cui la novella-saggio del 1798 – come suo costume inizio assoluto, opera aperta in genesi perpetua – è accompagnata da sessanta bellissimi disegni di Klee, come nella princeps del 1949. Si trattò, avverte Esengrini, di un accostamento ex post, non di un vero libro d’artista; eppure mai «parallelo» (come lo chiamò Stephen Spender) fu più riuscito. Il territorio magico di Novalis, caro anche a Marc, è frutto di una quasi scientifica composizione (La costruzione del mistero, suona in italiano il titolo della mostra alla Pinakothek), un reticolo di linee che alludono alla simmetria nascosta del mondo (come nell’esergo che nel ’39 ne trasse Tommaso Landolfi per La pietra lunare). E se lo slogan più famoso di Klee suona «l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile», non stupisce che abbia cercato ispirazione in chi ha lasciato scritto: «Tutto ciò che è visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile al non-udibile, il sensibile al non-sensibile. Forse il pensabile al non-pensabile».