Quando se ne va un artista visionario, il lavoro di ricostruzione della storia può mostrarci, ex post, quanto quell’artista sia stato d’importanza fondamentale per altre generazioni di artisti. La storia degli ultimi cent’anni, però, ha aggiunto coordinate, dinamiche e occasioni a quel principio, anche perché molte opere d’arte create da visionari hanno sortito effetti a cascata in più situazioni di creazione artistica, a cavallo tra i generi. Interferendo proficuamente a creare ponti tra arte e commercio, creatività individuale e mercato di massa. Si pensi a una figura come Andy Warhol, o Lindsay Kemp, e si pensi subito dopo al duca bianco David Bowie. Quando Boyd Raeburn, dimenticato direttore d’orchestra dell’immediato secondo dopoguerra, si trovò a condurre la fantasmagorica orchestra proto-latin jazz che eseguiva Cubana Be Cubana Bop di Dizzy Gillespie assieme al «santero» cubano Chano Pozo qualcuno avrebbe potuto ricordarsi di qualcosa di simile che aveva innescato quel gran fuoco anti accademico, riscoprendo la figura di Louis Moreau Gottschalk, giusto un secolo prima. Chissà se gli storici del futuro, imbattendosi nella figura torreggiante ed elusiva al contempo di Klaus Schulze, scomparso il 26 aprile a settantaquattro anni, pioniere dell’elettronica avvinta berlinese, uomo chiave di quel «kraut rock» che impresse alle note popular tutte una delle svolte più radicali e stranianti di sempre metteranno in conto, anche, che Schulze fu oltre che un padre della ricerca sonora pura e dell’avantgarde, ispiratore di una scena popular molto vicina al dancefloor, alla fisicità che si esprime sulla pista da ballo. Note che, volenti o nolenti, ci fanno muovere il corpo a tempo perché irresistibilmente propulsive, un innesco dinamico al movimento che nei Settanta sarebbe stato considerato poco meno che un’eresia, per una generazione che il viaggio lo concepiva solo come mentale e psichedelico.

UN PIONIERE
Non è stato il solo, Klaus Schulze, ma forse lui ci ha messo il carico in più, il quid di peso specifico maggiore che ne hanno fatto un maestro anche in quel senso. Si potrebbero ricordare altri krautrocker fautori, forse loro malgrado, di un avvicinamento dell’elettronica «povera» alle piste da ballo. Ad esempio il grande Manuel Göttsching degli Ash Ra Temple il suo Inventions for Electric Guitar del ’75, all’epoca considerato una sorta di ostico manifesto dell’iterazione, un gioco intellettuale di spire di suono dilatati agli estremi, è diventato uno dei vinili più campionati dalle successive generazioni «trance», con un picco di interesse in quegli anni Novanta ancora da indagare che mettevano assieme suoni dal mondo, pionieri dell’elettronica, battuta house di Chicago in un frullatore cosmico e terragno assieme.
Oppure lo specchio esatto, il contraltare, il doppio preciso di Klaus Schulze – di cui qui ricordiamo qualche tratto -, dunque il grande Edgar Froese dei Tangerine Dream: anche loro, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso grazie a lui passarono dalle fascinose e cosmiche nebbie di galassie dei primi dischi, una saga stellare di suoni raggelati e meravigliosi diretta emanazione di certe idee di Stockhausen, all’uso dei sequencer che, ugualmente gelidi, garantivano però un affidabile avvitamento della materia elettronica a spire cogenti di ritmo «in quattro» perfetto. Anche e soprattutto per ballarci sopra. O per fare da colonna sonora per documentari e film. Così fu, infatti. Nacquero i Tangerine Dream anni Ottanta e Novanta, da molti considerati con disgusto mero ripiego commerciale, da altri venerati come padri nobili di una musica che metteva in comunicazione generazioni altrimenti afone, nel parlarsi.
Vicenda, mutatis mutandis, non poi così lontana dall’operato di un Ennio Morricone nei suoi lavori considerati più «commerciali» rispetto alla composizione pura. Medesime piste, in Germania, sono state praticate da altri krautrocker sperimentali: ad esempio in casa Can è da segnalare la collaborazione del grande Jaki Liebzeit con Burnt Friedman nel 2005, a seguire quella, visionaria e danzereccia assieme del 2001 con Boris Polonski e Dick Herweg. Da parte sua, sempre in casa Can, Holger Czukay aveva trovato modo di collaborare già nell’81 con un musicista «scavalca generi» e ben attento alle pulsioni fisiche come Jah Wobble.

LE COLLABORAZIONI
Klaus Schulze ha percorso le medesime piste, e forse è il caso di ricordare che nei suoi inizi Schulze non era affatto il tastierista e specialista di sciamanica elettronica analogica che gli appassionati di rock progressivo amano ricordare: era un polistrumentista, e quando i primissimi Tangerine Dream ebbero bisogno di un batterista, Edgar Froese proprio lui chiamò, allo scorcio degli anni Sessanta. Dunque il ritmo ce l’aveva dentro. Tant’è che lo ritroviamo tra il ’70 e il ’71 dietro pelli e piatti e con le bacchette in mano anche nell’esordio di un altro gruppo frantuma generi, Ash Ra Temple, quelli guidati dal già citato Manuel Göttsching, e che l’anno dopo avrebbero sfornato una clamorosa collaborazione con Timothy Leary, gran sacerdote dell’underground acido. Poi arrivarono i lavori con le tastiere e i primordiali sequencer, nella seconda metà degli anni Settanta, un nuovo modo di intendere la ripetizione di spezzoni melodici, conferendogli una carica ritmica ineludibile. Però, a lato dello Schulze sperimentale, autore di almeno una quarantina di opere spesso di una bellezza straniante, che sembrano fatte con la materia oscura e palpitante che abita gli spazi siderali, a partire dagli anni Ottanta emerge sempre più il musicista insofferente di limiti e gabbie, quello che dichiara: «Progressive rock è un’etichetta per i fan e per i giornalisti. Ma per quanto mi riguarda Mahler e Wagner sono più “progressivi”. Sono un musicista, e quelle definizioni non significano granché. Non mi metto a sondare gli interessi di chi mi segue, siano più o meno giovani. In tutta la mia carriera ho fatto e faccio quello che ho voluto fare, e non mi sono preoccupato dei giudizi, anche se ovviamente mi ha fatto piacere che qualcuno si sia interessato e capisca la mia musica».
Ecco allora la lunga serie di collaborazioni con il musicista techno ambient Pete Namlook e Bill Laswell (altro sciamano a corrente alternata del dancefloor dub) per la fluente serie Dark Side of the Moog, e un colpo piazzato di ammaliante bellezza con un’altra eretica dell’art rock, la vocalist Lisa Gerrard dei Dead Can Dance: assieme realizzano Farscape e poi Rheingold, dilatata, monumentale testimonianza «live» dell’intesa. Ma il colpo più spiazzante di tutti, per chi non crede che uno sperimentatore possa confondersi col pop era già arrivato nell’89. Era successo che, nell’estate dell’87, Schulze era andato a conoscere il duo synth pop tedesco Alphaville, col tramite di un amico. Loro sfornavano hit tutt’ora battuti come Forever Young o Big in Japan, ma, nemmeno troppo sotto sotto, erano fan di vecchia data di Klaus Schulze: uno di loro era stato dj di introduzione proprio in una serata «live» di Schulze, nel ’75. L’attempato maestro mostra loro qualche trucco di studio, poi dice che sì, se la sente di lavorare assieme, e aggiungere un po’ dei suoi voli di tastiere. Diventerà co-produttore del nuovo disco, alla fine, The Breathtaking Blue. Il meno venduto degli Alphaville, quello senza hit da classifica, il più bello, con quel muro di tastiere che volteggiano aggraziate e incorporano anche tocchi jazzati nell’aggiunta di sassofoni, trombe, chitarre acustiche. «Alla fin fine – raccontò anni dopo – la mia musica oggi è accettata e cercata da una nuova generazione che non ha i pregiudizi dei loro genitori».