Un Kitano sublime chiude la Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Un Kitano funebre e solenne nella sua sontuosa maestosità dolente. E laddove John Woo con Man Hunt umilia il suo passato, Kitano astrae dal suo cinema un terminale teorema sul potere mortifero della violenza del neoliberismo. Il punto d’osservazione è l’universo degli yakuza già esplorato dal regista e attore nelle sue opere precedenti, ma che in Outrage – Coda raggiunge vertici assoluti di purezza visiva. Un diamante di perfezione geometrica, il film mette in scena una guerra fra clan rivali i cui complotti e intrighi non avrebbero sfigurato in un dramma elisabettiano.

Rispetto agli autodafé delle ultime prove di Kitano, Outrage – Coda è un film controllato è silenzioso che rievoca i primissimi e più celebrati lavori del maestro giapponese. Da un’offesa quasi insignificante deriva una teoria inarrestabile di progressivi slittamenti del potere e delle gerarchie criminali che, al contrario di quanto accade nei noir di Miike Takashi, per esempio, termina non con uno schianto ma un lamento quasi inaudibile. Incorniciato da un quadretto di «banale» felicità quotidiana (forse il film si svolge tutto nell’al di là degli yakuza che sognano dei semplici stufati di kimchi) Kitano mette in scena un film dal rigore formale abbagliante. E, proseguendo nell’impietoso confronto con il pessimo Man Hunt di John Woo, se il regista cinese rimette in scena come parodia il proprio mondo, Kitano depura il suo di ogni eccesso, permettendo che venga posseduto da un’ineludibile malinconia traslucida dal sapore metallico. Il mondo nel film di Kitano sembra come svuotarsi.

Resta solo il potere, il denaro e i suoi simulacri. Gli uomini ridotti a meri ingranaggi vagano gettati nel mondo assecondando solo la loro funzione lavoro. In Outrage – Coda non vi è nessuna concessione alla mitologia yakuza o al piacere sardonico dell’ultraviolenza cui Kitano in passato ha fatto delle concessioni paradossali ma sempre coerenti con il suo universo espressivo. Outrage – Coda è un lamento. Sommesso e preciso. Il canto di un universo morente – anche come mitologia segnica e filmica – giunta al capolinea. Ripercorrere la teoria degli intrighi dei nomi e dei clan, i rovesciamenti di fronte e dei tradimenti, tutti derivanti da un affronto di cui si macchia lo yakuza Hanada aderente al clan degli Hanabishi nei confronti di Otomo (interpretato da Kitano), non avrebbe molto senso. Il senso di vuoto e di nulla distillato dalle riunioni infinite degli yakuza, che discutono alla stregua di un consiglio di amministrazione, è agghiacciante. Il mondo perde senso mentre si discute del valore in yen di un killer ammazzato per rivalsa. E anche tutta la mitologia dell’onore, asse portante del pensiero yakuza, è denunciata per quel che è: l’apparato ideologico di una macchina di potere e oppressione.

Kitano trascina la sua faccia, ridotta a una maschera iconica, fra le più credibili del cinema contemporaneo, come se fosse il segno di un mondo che non esiste più o, addirittura, che non è mai esistito. Nel vuoto pneumatico di un universo ridotto a zero, Kitano si trascina come un segno consapevole di essere giunto alla fine, una contraddizione o una interruzione del consenso rispetto al discorso dominante.

Scritto, diretto e montato da Kitano, Outrage – Coda è l’espressione più precisa del cinema di Kitano. Uno stoico lamento con un sorriso auto dissacratorio saldamente stampato in faccia. Non c’è niente da ridere, ma non vale la pena piangere. E poi: bisogna davvero amare l’umanità di un amore viscerale per realizzare film così potentemente amari. Come un’esortazione a riconquistare tutto quanto è stato perduto per non morire definitivamente. (Ri)trovare Kitano così vitale (ma non è che se ne fosse mai andato…) mentre le prefiche delle cronache cinematografiche lo davano ormai per spacciato non può che stringere il cuore dal piacere e dalla commozione. Outrage – Coda è così il miglior Kitano di sempre. L’affermazione di un cineasta che si è sempre messo in gioco indifferente ai calcoli delle opportunità e dei compromessi. E il cinema e i grandi festival, oggi, hanno bisogno più che mai di pensatori come lui.