La gioia e l’angoscia di vivere: bipolare per eccellenza, Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938) incarna esemplarmente il mito dell’artista moderno, intriso di vitalismo romantico, terrorizzato dalle costrizioni sociali, bisognoso di contatto con la natura e spiazzato di fronte all’enormità degli spazi urbani. Una mostra che ne esplora proprio la schizofrenica duplicità, tra anelito alla modernità e ritiro nella provincia, ricerca di uno stile personale e dialogo con i grandi maestri contemporanei, fascino della metropoli e richiamo dell’interiorità, è ora offerta dal Kunsthaus di Zurigo con il titolo Grossstadtrausch/Naturidyll. Kirchner – Die Berliner Jahre (fino al 7 maggio): un’occasione straordinaria per apprezzare chi, tra Van Gogh e Chagall, guardava all’arte di ieri senza riuscire a fare i conti con l’oggi, sovrastato dall’ansia e devastato dalle droghe.
Disperatamente voyeuristico
L’adolescente annoiata sul divano, il gomito sul bracciolo, la mano sul mento, una gamba ripiegata sull’altra e un piede sul divano accanto all’immancabile gatto sonnacchioso, dipinta nel 1910 a Dresda (Artista-Marcella), è certamente lui stesso, con quei colori forti a contrasto, i contorni marcati e la luce frontale che definirono lo stile Brücke, il gruppo da lui fondato con Fritz Bleyl, Erich Heckel e Karl Schmidt-Rottluff. Voglia di vivere e stallo rispetto alla responsabilità lo rendono disperatamente voyeuristico: come quando chiede allo specchio, d’après Velázquez, di vedere più e meglio di lui (in Liegender Akt vor Spiegel, nudo reclino davanti allo specchio, 1909-’10, oppure Rückenakt mit Spiegel und Mann, nudo di schiena con specchio e uomo, 1912).
Era ancora imbevuto di primitivismo e orientalismo à la Gauguin, a quel tempo, prima che l’incontro con Berlino, la folla e i boulevard, lo portasse a guardare col grandangolo, distorcendo le forme, intensificando gli spigoli, aumentando le pennellate, più rapide e incisive, e sfumando i colori, più continui e meno acidi. La città fa girare la testa, come a Nollendorfplatz (1912) o sulla Strasse am Stadtpark Schöneberg (1912-’13). La bellezza si trasforma in eleganza (sullo sfondo della mondanità, tra passeggiata e caffè) e il corpo femminile è sempre più perturbante (nel contesto dei riti sociali, la prostituzione su tutti). Sono quasi sempre in coppia, le donne, ora, allungate e snodate nelle forme, a definire il suo marchio stilistico, ma soprattutto è definitivamente doppio il suo sguardo, come dimostra il riuso della tela a rovescio per passare dalla spiaggia alla stanza o dal nudo al vestito: come se la natura fosse stata ingabbiata nei rituali della vita sociale, privata di spontaneità, per cui la pennellata può mettere meglio a fuoco il dettaglio ma deve rinunciare alla profondità nel nome del dinamismo. Per chi volesse entrare nel laboratorio di Kirchner qui la mostra è davvero obbligatoria, con una bellissima sala dedicata ai suoi schizzi, disegni e incisioni su carta e cartoncino, dove il maestro del disegno più sottile e dello scarabocchio più rabbioso si combinano e confondono: voleva rappresentare tutto, Kirchner, dare voce al visto e al sentito, esprimere la realtà e manifestare le emozioni, in una furia totalitaria che lo portava spesso a cancellare il disegno originario con l’accumulo dei tratti e dell’inchiostro. I Brücke si scioglievano e Kirchner diventava alcolizzato.
L’apocalittico benjaminiano
Degenerato, lo avrebbero chiamato i nazisti venti anni dopo, con le infami esposizioni degli anni 1937-’41, ma è giusto recuperare ora la categoria benjaminiana di apocalittico: spinto irrestibilmente dalla tempesta verso il futuro, a cui volge le spalle, mentre tenta di aggrapparsi a un passato in macerie. La versione digitalizzata dei dodici schizzi per la serie Die Hure Babylon del 1917 su pacchetti di sigarette (ora al Getty Research Institute di Los Angeles), per la prima volta in mostra in una personale di Kirchner, è forse il valore aggiunto dell’esposizione zurighese: ricordandosi di Blake illustratore, Kirchner racchiude l’angoscia del suo tempo e sua personale, un tempo di guerra e un uomo spaventato, in dodici piccolissimi acquarelli dal tratto velocissimo e dai colori spruzzati, in modo da fornire vere e proprie istantanee di uno stato d’animo anziché un’illustrazione narrativa. Illustratore al servizio del testo non riusciva a esserlo, del resto, neppure quando dialogava con la Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso, uno dei grandi capolavori dell’ombra nel romanzo moderno, che illustrava con otto tavole nel 1915.
Bohémien, nevrotico e visionario, imbottito di assenzio e di morfina, Kirchner è davvero il paradigma dell’artista romantico, che coniuga sofferenza esistenziale e dedizione formale, sregolatezza di vita e passione nel lavoro: a lui bisognerebbe chiedere tuttavia quanto le droghe lo avessero ispirato oppure travolto, se è vero, come la mostra mette bene in rilievo, che il ritiro sul mare, a Fehmarn, nel Nord della Germania, lo riportava all’idillio. Doppia anima, come vuole la mitografia dell’artista folle e geniale, oppure esasperata esplorazione delle contraddizioni della modernità, in quella stretta tra avanzata del progresso e perdita dell’autenticità che in quegli stessi anni faceva impazzire i personaggi pirandelliani e vagare a vuoto quelli kafkiani? Fin dalla capitale monografia di Donald E. Gordon del 1968, Berlino e Fehmarn, la città e la natura, sono state viste come fonti d’ispirazione opposte, a segnare un’anima inesorabilmente scissa – anche se c’è chi, più di recente, ha insistito sulla continuità all’insegna dell’estetizzazione del paesaggio, luogo di ricerca formale anziché di critica politica. Una foto del 1915 lo rappresenta sfuocato in primo piano mentre danza nudo, di profilo, l’immancabile sigaretta in bocca, davanti a Werner Gothein e Erna Schilling: la gioia della danza e la mancata messa a fuoco convergono a renderlo ombra della sua ombra, come Peter Schlemihl nella storia di Chamisso, in un tentativo disperato di evadere dal qui e ora della Storia per entrare in un dimensione altra, dove regnano la libertà dei corpi e la comunione delle anime. Non potrà che essere segnato dalla guerra e dal servizio militare, un artista simile, che già vedeva la città come luogo della mascherata (Zwei Frauen auf der Strasse, 1912-’14) e della parata (Friedrichstrasse, 1914), dove le mitologie contemporanee del makeup femminile e della folla in processione sembrano militarizzate, spaventosamente simili all’ostentazione dell’uniforme e al cammino di una truppa: estraneo tanto al dinamismo futurista quanto all’espressionismo fauve, Kirchner è pervaso dalla vertigine dell’angoscia, che lo porta a esplorare diversi punti di vista con pennellate che somigliano sempre di più a incisioni.
Rimosso e distrutto dai nazisti, Kirchner immette il suo essere tedesco dentro un flusso più largo, quello tra antico e moderno e tra il passato e l’avvenire: è volontà di potenza senza la potenza della volontà. Le Tre bagnanti (Drei Badende, 1913) condensano la sua ispirazione apocalittica, inserendo il tema tradizionalissimo delle bagnanti (da lui più volte esplorato) in uno scenario di mare in tempesta, le cui onde sono però più decorative, a formare una conchiglia, che minacciose: l’ultima delle donne ha le ali e una colomba arriva dall’alto. Come non pensare a un battesimo trinitario delle Grazie combinato con la nascita di Venere dal mare?
Morto suicida nel 1938
Classico e romantico insieme, Kirchner cerca disperatamente un senso, che trova di volta in volta nella bellezza femminile, nell’unione tra uomo e natura e nel mito del paradiso perduto. Il senso per sé non l’ha trovato (morto suicida nel 1938 di fronte all’avanzata nazista nell’Europa centrale), ma ci lascia una tempesta che spira dal Paradiso, come diceva Benjamin, inesorabilmente prigionieri della condizione di passaggio che ci attanaglia, tra un passato in macerie davanti a noi e un futuro ansiogeno in cui non riusciamo a collocarci.