Un photo show che potrebbe portare a risultati concreti, più di quanto si possa pensare conoscendo i protagonisti, entrambi desiderosi di suonare la grancassa propagandistica all’interno dei propri paesi. I simboli in Asia contano e i primi 20 passi in assoluto di un presidente americano – suona incredibile ma Trump si prende anche questo record – sul suolo nordcoreano, nonostante l’ampio battage mediatico e il tentativo di ridurre tutto solo a un evento social, potrebbe contribuire davvero a riattivare il processo di pace coreano.

Da Seul, inoltre, si mormora che l’ormai celebre tweet di Trump a Kim per incontrarsi al confine tra le due Coree, sarebbe stato semplicemente l’esito finale di un lavoro svolto dal presidente sudcoreano Moon Jae-in: in questo caso l’importanza del mini summit di domenica sarebbe ancora più rilevante.

Lo conferma dalla Corea del Sud Antonio Fiori, professore associato di storia e istituzioni dell’Asia a Bologna e adjunct professor alla Korea University di Seul, secondo il quale ogni passo, anche minimo, all’interno del lungo e difficoltoso processo di pace in Corea è da salutare come positivo, nonostante lo scetticismo che ormai aleggia sulla relazione Usa-Corea del Nord, specie dopo il fallimento del secondo summit di Hanoi.

Naturalmente bisognerà capire la balestra temporale dei prossimi passaggi, ma i reciproci inviti tra Trump e Kim a incontrarsi ancora (Mike Pompeo ha lasciato intendere che il terzo summit potrebbe svolgersi a luglio) e il sottinteso riavvio di colloqui potrebbero portare a novità. Lo scenario infatti può arricchirsi a breve di qualche risultato più rilevante di quelli ottenuti finora: «Gli Usa – specifica Antonio Fiori – potrebbero procedere a un ammorbidimento delle sanzioni e in cambio i nordcoreani, a prescindere da chi farà il primo passo, potrebbero proporre uno smantellamento del proprio arsenale nucleare più concreto di quanto prospettato in passato; allora probabilmente si potrebbe andare verso obiettivi sempre rinnovati e sempre più concreti perché si possa procedere a un vero processo di pacificazione».

L’obiettivo finale, non va dimenticato, è la denuclearizzazione della penisola coreana; per questo anche la breve passeggiata di Trump sul suolo nordcoreano – con tanto di scambi di battute tra il presidente americano e il leader di Pyongyang – va inserita e letta all’interno di un percorso complicato, preda talvolta di scontri più ampi, vedi quello americano con la Cina sui dazi, e dunque sottoposto a continue accelerate e frenate.

Ogni «contatto» o incontro è da incasellare in un contesto che per forza di cosa procederà ancora a strappi. Gli oppositori di Trump, come quelli di Moon Jae-in, hanno sottolineato la legittimazione che, ancora una volta, sia Washington sia Seul avrebbero dato a quello che viene considerato a tutti gli effetti un dittatore. Ma ormai, dal summit di Singapore – un altro evento storico – la strada intrapresa è questa.

Da tenere in conto, infine, la percezione della Cina. Ieri il quotidiano nazionalista Global Times, sempre utile per comprendere cosa bolle in pentola ai vertici del partito comunista cinese, ha salutato l’incontro sulla zona demilitarizzata con un cauto ottimismo, ricordando – naturalmente – l’importanza della Cina per il regno di Kim: un messaggio trasversale che è parso concedere a Kim Jong-un il palcoscenico, pur ricordando che i destini del proprio paese dipendono in primo luogo dagli aiuti, economici e non solo, di Pechino.

Rimettere in pista un dialogo sulla denuclearizzazione, placando il «fronte nordcoreano», del resto non può che fare piacere a Pechino, la cui attenzione al momento è completamente catturata dalla necessità di limitare i danni della guerra commerciale con gli Stati uniti. Con un occhio a quanto sta accadendo a Hong Kong.