La barbara uccisione di George Floyd e tutte le manifestazioni e proteste che ne sono conseguite, negli Stati uniti e nel resto del mondo, hanno avuto delle ripercussioni, alquanto blande a dir la verità, anche nell’arcipelago nipponico. Come spesso accade in seguito a questo tipo di rivolte, i mass media giapponesi sono stati molto reticenti nel riportare le notizie dall’America, come se si trattasse di qualcosa di estraneo che non riguarda il Sol Levante. Un video prodotto dall’emittente nazionale Nhk per spiegare cosa stesse succedendo in America, ha però fatto traboccare il vaso della pazienza di chi in Giappone a queste tematiche ci tiene.

REALIZZATO probabilmente in buona fede, ma non è una scusante, un breve filmato animato è ricaduto pesantemente in stereotipi razziali che avrebbero fatto accapponare la pelle 60 o 70 anni fa figuriamoci oggi. Senza peraltro dare spiegazioni di cosa stesse succedendo davvero negli Stati uniti e del perché, focalizzandosi, come la maggior parte dei programmi televisivi, più sulle scene di distruzione di negozi e locali che sulle ragioni di chi protestava. Le voci di dissenso contro il video si sono subito fatte sentire, anche la tennista giapponese di colore Naomi Osaka, di solito molto riservata, ha deciso di intervenire abbastanza fermamente online. A queste proteste sui social è seguita una presa di posizione ufficiale dell’ambasciatore americano a Tokyo, che ha condannato il video e che di fatto ne ha prodotto la cancellazione e una dichiarazione di scuse da parte dello stesso network. Queste vicende hanno messo in risalto ancora una volta tutte le problematiche legate al serpeggiante razzismo e alla xenofobia presenti nell’arcipelago giapponese, i nodi sono molti e complessi, dai rapporti con gli altri paesi asiatici fino ad una supposta omogeneità razziale che tende a scartare tutto ciò che è diverso, magari in maniera indiretta e «gentile», ma che non è assolutamente accettabile.

LA RAPPRESENTAZIONE delle persone di colore è un ambito dove la società giapponese, non parliamo naturalmente dei singoli, ma di un atteggiamento medio, dà il suo peggio. La pratica del black face in televisione era popolare fino a pochi decenni fa ed anche al cinema i film che trattano il tema dell’integrazione del diverso, in questo caso le persone di pelle più scura, sono pochissimi. Un eccezione è Kiku to Isamu (Kiku e Isamu), film realizzato dalla Dokuritsu Production nel 1959 e uno dei primi lungometraggi giapponesi in cui il protagonista, in questo caso sono due ragazzi, è un giapponese di colore. Il primo nelle storiografie ufficiali, anche se poco è stato scritto al riguardo, dovrebbe essere Konketsuji (bambino di di razza mista) diretto da Hideo Sekigawa nel 1953. Kiki e Isamu fu diretto da Tadashi Imai, autore che in molti dei suoi lavori ha portato sul grande schermo le storie di chi non ha voce e dei più emarginati. L’undicenne Kiku e suo fratello minore Isamu abitano con una zia nelle campagne giapponesi, siamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale e sorella e fratello sono figli di un soldato americano afroamerican e di una prostituta giapponese, entrambi morti. I due sono considerati dagli altri bambini, ma anche dagli adulti come una curiosità della natura e spesso appellati come gorilla o altre crudeltà del genere. La grandezza del film di Imai è che riesce a fornire un quadro crudo della società giapponese del periodo, ma allo stesso tempo, ed è questo il vero cuore del film, descrivere il percorso e la crescita dei due ragazzi, specialmente quello di Kiku, in maniera empatica e alla fine con un senso di ottimismo verso il futuro che solo i bambini riescono ad avere.

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