Kiki ha tredici anni e molta voglia di crescere. A differenza di altre sue coetanee alle prese con le nuove pettinature o le tendenze della moda, ha un compito importante da svolgere: allontanarsi dal tepore famigliare e dalla sua casa per portare a termine l’apprendistato da strega. Così vuole la tradizione del Giappone e, prima di lei, ha già percorso quella strada sua madre e, probabilmente, lo hanno fatto le sue antenate. Kiki si concede solo un’ultima regressione verso l’infanzia, un tenero abbraccio paterno che le lascia fare l’«aeroplanino»; poi, coraggiosamente, sale a cavalcioni della scopa e prende il volo.

Vestina nera, fiocco rosso in testa (altro retaggio di un’epoca bambina), come unico compagno Jiji, il gatto parlante, Kiki dovrà essere in grado di affrontare la solitudine in una nuova città, ingegnarsi per realizzare qualcosa di utile (consegnerà il pane svolazzando e ottimizzando i tempi), imporre la sua presenza magica, senza nessuna scuola alla Harry Potter ad indirizzarla sulla giusta via. Da parte sua, ha la forza dell’istinto e un benevolo senso di comunità umana. L’iniziazione all’adolescenza comporta una necessaria «sparizione» e per mutare di stato, questa teenager speciale (ma non troppo) dovrà riuscire a farsi accettare, divenire adulta fra gli altri. Non sarà una storia semplice, la sua.

Kiki consegne a domicilio, capolavoro di Hayao Miyazaki uscito dallo Studio Ghibli nel lontano 1989 (ora nelle sale italiane, distribuisce Lucky Red), è la magnifica metafora dei turbamenti di un corpo – e una mente – in rapido cambiamento. È un romanzo di formazione tutto al femminile dove la «crisi», la perdita di potere e la riconquista della fiducia in se stessi sono le temibili prove da superare. Nessun effetto speciale sostiene Kiki nella sua impresa, se si esclude quel prodigioso volo che affascinerà uno dei pochi esemplari maschili del film, Tonbo, il simpatico ragazzino che sogna di costruire macchine per attraversare il cielo e che costituirà l’occasione del riscatto.

Tre, invece, le donne che verranno in suo soccorso quando l’identità vacillerà pericolosamente. Meglio, tre stagioni dell’esistenza femminile: la pittrice Ursula che per ritrovare i colori della creatività se ne sta da sola in una baita del bosco, la materna panettiera Osono (pure incinta) e un’anziana ed elegante signora, che rinverdisce il mondo affettivo delle nonne e delle loro profumate cucine.
Tratto dal bestseller giapponese di Eiko Kadono (pubblicato in Italia da Kappalab), il film ebbe una gestazione complessa: all’inizio Hayao Miyazaki doveva figurare soltanto come produttore. Nel corso della lavorazione, però, decise di passare alla regia, riscrivendo anche la sceneggiatura: il cineasta ritenne di dover cambiare lo spirito del libro della scrittrice (non fu facile farle digerire la «virata» di rotta), abbandonando la leggerezza del racconto originale per avvicinarsi di più alle ragazzine contemporanee. Ambientò il film negli anni Cinquanta e scelse come location la città di fantasia Koriko, disegnata come fosse un puzzle delle migliori architetture europee, con un occhio puntato su Stoccolma, luogo che lo aveva, appunto, «stregato». Un’intuizione la sua che, grazie al successo di pubblico, permise allo Studio Ghibli di consolidare la propria struttura e di partire in tutta tranquillità per l’avventura artistica che dura ancora oggi: da quel momento, Miyazaki poté contare su un team di animatori assunti in pianta stabile.

Kiki consegne a domicilio descrive le rose e le spine di un rito di passaggio, è un temporaneo stato di sospensione antropologico che tocca il tema dell’ineguatezza dell’adolescenza (la piccola strega si vergogna del suo semplice e sformato abito, che la rende anacronistica rispetto le altre ragazze, tutte in tiro con pantaloni alla pescatora e ballerine ai piedi), la paura di non farcela, il bisogno di amicizia e la possibilità di misurarsi con la vita. Magari in due.