Quattro persone uccise (tre civili e un militare) e sette feriti ieri a Donetsk per i bombardamenti ucraini. Da tempo le artiglierie di Kiev si concentrano su obiettivi civili e in particolare su scuole, asili, mercati. La guerra nel Donbass va avanti e i civili continuano a morire nelle case e in strada più che al fronte. Ed è strana, anche se non stupisce, la strategia selettiva di molti media nostrani, che elargiscono le notizie non in base a quanto avvenuto, bensì a cosa «potrebbe essere accaduto se». Ci è sfuggita sui siti italiani – oppure non siamo stati così tempestivi da coglierla prima che fulmineamente venisse oscurata – la notizia dei bambini uccisi il 5 novembre scorso dalle artiglierie ucraine nel campo di gioco di una scuola di Donetsk. Non è così per i fantomatici «tank russi» sul confine ucraino; oppure i voli di caccia russi nei cieli (internazionali), o le presunte colpe dei «ribelli filorussi», su cui si insiste ormai da mesi, nell’abbattimento del Boeing malese lo scorso luglio.

Il vice premier della Repubblica di Donetsk Andrej Purghìn ha attribuito l’insistenza di Kiev a prendere di mira i quartieri civili «alla volontà governativa di terrorizzare la popolazione» e ha denunciato il mancato funzionamento degli accordi di Minsk, attribuendolo al al fatto che l’Osce non è in grado di assicurare un effettivo controllo, che potrebbe invece venir garantito da una parte terza. «L’Ucraina ha interrotto gli scambi di prigionieri – ha detto Purghìn – non ha arretrato le artiglierie pesanti; continua a bombardare i quartieri residenziali e uccidere civili; non ha ancora cominciato la bonifica dei campi minati. In sostanza, nemmeno un punto degli accordi ha funzionato, perché quei punti rientrano nelle funzioni di controllo dell’Osce, che invece non controlla».

Lasciando per il momento il campo ipotetico – se sia utile a Kiev un prolungamento della guerra nel Donbass, per ricevere quanti più aiuti occidentali; se avrà la meglio il «partito della guerra» uscito più forte dalle elezioni del 26 ottobre o se Poroshenko riuscirà, sulla spinta di necessità energetiche, a intavolare vere trattative con la Novorossija – è sicura invece, per i media nostrani, la minaccia russa all’Europa, che si sarebbe ripetuta nella mancata «collisione con caccia russo» di una aereo civile scandinavo nel marzo scorso e di cui si è avuta notizia ieri; mancata collisione che avrebbe potuto condurre a «un disastro simile a quello avvenuto in Ucraina» in luglio. Dato che non si è potuta palesare alcuna responsabilità delle milizie (gli indizi portavano anzi a un sistema missilistico ucraino) nell’abbattimento del Boeing malese e dopo che era stata avanzata un’ipotesi di «tipo Ustica» – intervento di un caccia – l’equazione si può ora »risolvere» ponendo l’incognita uguale al Cremlino. Che Kiev abbia finora impedito la raccolta dei rottami del Boeing, per analizzarli, continuando a bombardare l’area su cui sono disseminati, è un fattore su cui non è necessario – per alcuni – soffermarsi.

E mentre Berlino dichiarava che i media tedeschi hanno travisato le conclusioni dell’intelligence sui possibili scenari dell’accaduto, da Donetsk hanno comunicato di essere in grado, Kiev permettendo, di raccogliere i resti dell’aereo, anche se «si ha l’impressione» ha detto Purghìn «che il Boeing caduto non interessi a nessuno. Gli esperti olandesi sono venuti qui solo dopo un’ulteriore campagna mediatica e nella raccolta dei resti non sono loro a impegnarsi, bensì i nostri rappresentanti e i volontari». Putin, in un colloquio a Pechino con il premier malese Najib Razak, ha osservato che la Russia, come la Malesia, insiste sulla necessità di un’indagine obiettiva e completa delle cause della tragedia e Mosca «si compiace che i professionisti malesi siano stati finalmente ammessi a partecipare all’inchiesta».