È una giornata d’autunno del 1855 quando il filosofo Søren Kierkegaard, che ha allora solo quarantadue anni, si presenta al Fredrikshospital di Copenaghen per farsi visitare, ma in realtà, non avendo ormai alcuna speranza di guarigione, per essere assistito nei suoi ultimi giorni di vita. Ha così inizio il romanzo biografico di Stig Dalager, L’uomo dell’istante, uscito in Danimarca nel 2013, in occasione del bicentenario della nascita dello scrittore-filosofo, e che appare ora in Italia nell’accurata traduzione di Ingrid Basso per Iperborea (pp. 416, euro 18.50).
Dalager non è nuovo al genere biografico: già nel 2004 ha infatti pubblicato Viaggio nell’azzurro, sulla vita di Hans Christian Andersen, e nel 2012 La luce azzurra, su Marie Curie. Come nei due romanzi precedenti, la narrazione prende le mosse dagli ultimi giorni del protagonista, la cui memoria ricostruisce quindi il racconto biografico in una serie di flash back che, pur seguendo in generale una linea di sviluppo cronologico, permettono all’autore di concentrarsi su momenti particolarmente significativi e intensi, capaci di manifestare con particolare forza e problematicità le questioni che hanno dominato la vita, il pensiero, le emozioni del personaggio.
La strategia di ricostruire una vita in un succedersi di scene, episodi, monologhi interiori e documenti storici si rivela particolarmente adeguata nel caso di Kierkegaard: personaggio più di chiunque altro refrattario alla sintesi con il suo pensiero manifestamente e consapevolmente contraddittorio, con le sue scelte di vita almeno apparentemente irragionevoli, apostolo dell’amore e della mitezza e polemista feroce, che non ferma i suoi attacchi incalzanti nemmeno dopo la morte dell’avversario.
L’operazione di Dalager è difficile e ambiziosa: il romanzo si basa sui più recenti risultati della ricerca storica e biografica e già nella Nota dell’Autore, in apertura del volume, Dalager dichiara il proprio debito nei confronti del libro di Joakim Garff SAK – Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, pubblicato in Danimarca nel 2000 e in Italia, da Castelvecchi, nel 2013. Le finalità di un romanzo sono però assai diverse da quelle di uno studio scientifico e l’intento dell’autore non è quello di dipanare in forma narrativa le vicende della vita del filosofo, ma di esplorare l’intima connessione tra vissuto interiore, vicende esteriori e pensiero. Una esplorazione indispensabile per comprendere il lavorio emotivo e intellettuale di questo pensatore nemico di ogni sistema, che impiegò tutta la propria esistenza a indagare se stesso per comprendere tutti gli uomini e arrivare infine ad accettare l’incomprensibilità di Dio e dell’esistenza, facendosi carico della propria disperazione e tentando il «salto vertiginoso» nella religione e nella fede.
In questo movimento di esplorazione interiore il Kierkegaard descritto da Dalager assume punti di vista differenti e incompatibili, sperimenta diverse concezioni del mondo, frantuma il proprio io in una quantità di pseudonimi, ognuno dei quali rappresenta una parte di lui, ma in assenza di una totalità, che sembra formarsi solo nell’abdicazione di sé, nell’affidarsi all’assurdità della religione: «Uno scrittore si nasconde dentro l’altro come in un gioco di scatole cinesi, l’esistenza scricchiola nel pieno del gioco, è manipolazione e isolamento, ma lui, Søren, dov’è?»
Quello che Dalager, in quanto autore di un romanzo, può darci di più rispetto a una biografia scientifica è la vivida – e angosciosa – descrizione della lacerazione interiore di Kierkegaard, e di come questa lacerazione si trasformi in scrittura. Due, principalmente, sono le figure con cui il filosofo si misura per tutta la sua vita: il padre Michael e Regine Olson, la giovane donna amata e temuta, conquistata e abbandonata.
Severo e intransigente, il padre incombe sul giovane Søren come un’ombra minacciosa, e tuttavia sarebbe semplicistico vederne solo l’aspetto cupo e oppressivo. Dal padre, Kierkegaard impara a non accontentarsi della superficialità, a non assolversi cercando rifugio nell’inconsapevolezza, ma a scavare spietatamente in se stesso alla ricerca di una ragione di vita, di una verità che giustifichi l’esistenza: «Ciò che conta è trovare una verità che sia verità per me, trovare ciò per cui io voglio vivere e morire». Impetuoso, tormentato e di fatto impossibile, il rapporto con Regine è ben più di una (fallita) relazione amorosa, è piuttosto un laboratorio psichico in cui Søren viviseziona la propria anima, si confronta con i propri desideri, impulsi, terrori.
Che di Regine sia innamorato non c’è dubbio, e la giovane donna assume ai suoi occhi una funzione quasi salvifica: «Sai che la Chiesa cattolica insegna che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime del purgatorio», le scrive in una lettera riportata nel romanzo per intero, «io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore smetto di udire lo sferragliare di catene, e sono libero». Ma la presenza di Regine non può dare pace al suo innamorato, troppo concentrato sulla sua ricerca interiore per poter tenere aperto un dialogo costante con un altro, vero e concreto essere umano.
Regine diventa così l’incarnazione di tutto ciò che è desiderabile, ma anche di tutto ciò che è negato a chi ha deciso di sacrificare se stesso sull’altare della verità, di una verità che non riesce peraltro a emergere se non nell’atto di negazione di ogni sforzo intellettuale e dialettico, vale a dire nel «salto» nella religione. Ed ecco allora che il ruolo di redenzione che Regine non può svolgere viene almeno in parte assunto dalla scrittura: «Scrivere è un godimento e una liberazione dall’umor nero, una vera e propria voluttà della penna che può nascondere anche un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre all’infinito e fa mancare la terra sotto i piedi».
La scrittura è così espressione e sostanza della vita di Kierkegaard, i suoi libri sono la sua biografia interiore, ognuno di essi è una nuova esperienza di esplorazione di sé. Dalager, quindi, non può fare a meno di accompagnare il racconto con riassunti e estratti delle sue opere, a costo di correre il rischio di rendere la lettura più lenta e difficoltosa. Questi riassunti e questi estratti, peraltro, non possono in alcun modo essere utilizzati per spiegare o riassumere il pensiero del filosofo: L’uomo dell’istante non è una «guida alla lettura» di Kierkegaard, ma un’indagine del processo creativo in cui esperienza, sofferenza, dubbio e volontà si mutano in pensiero, anzi, in pensieri tra loro in dialogo e, spesso, in conflitto.
In questo senso la vicenda umana di Kierkegaard diviene una vicenda esemplare, un caso estremo in cui l’indissolubile groviglio delle relazioni tra vita esteriore e vita interiore, tra ambiente e individuo, tra dimensione inconscia e riflessione cosciente si rivela in tutta la sua complessità e, anche, nella sua minacciosa instabilità. E nel lettore restano impresse immagini che hanno la forza di simboli: le surreali cene che Søren organizza con ospiti immaginari, ad esempio, cui fanno contrasto le giornate passate giocando con i bambini, nipoti e figli dei vicini. E, naturalmente, gli ultimi momenti del filosofo: il corpo sempre più debole, la rassegnazione svagata, malinconica, e la dolce presenza dell’infermiera Ilia Fibiger, quasi una riapparizione della donna angelo, protettiva e irraggiungibile, che per tutta la vita aveva avuto il volto di Regine Olsen.