
Ancora una volta, a Venezia, il fuoco sembra aver aggredito la grande Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale. Il precedente è quello del devastante incendio del 20 dicembre 1577, che aveva portato via capolavori di Bellini, Vivarini, Carpaccio, Tiziano e Tintoretto. A quasi 450 anni di distanza è un altro fuoco a «bruciare» gli immensi spazi di questa Sala – affacciata sulla Piazzetta di San Marco – dove veniva eletto il Doge e dove in precedenza era stata accolta la straordinaria biblioteca del cardinal Bessarione, uno dei più importanti lasciti culturali alla città. Il nuovo fuoco è quello della pittura di Anselm Kiefer, che avvolge l’intero perimetro della Sala, con un’operazione per la quale l’aggettivo «impressionante» non sembra davvero di troppo.
Era stata Gabriella Belli, direttrice dei Musei Civici veneziani, a proporre all’artista tedesco un intervento nella città lagunare. Era l’estate del 2019. Incontrando Kiefer nel suo studio di Barjac, vicino Nizza, nessuno poteva certo immaginare che il ciclone della pandemia di lì a pochi mesi avrebbe cambiato la vita di tutti. Tuttavia il primo pensiero sviluppato in quell’incontro suona quasi premonitore. Scrive Belli nel testo introduttivo al catalogo (molto completo e ricco, edito da Marsilio): «Lo scopo? Riformulare un concetto d’arte pubblica nelle istanze del nostro tempo contemporaneo, o, meglio, dovrei dire di quel tempo, che ci stava precipitando addosso. Ma ancora non lo sapevamo».
Ora evidentemente lo sappiamo. Così entrare nella Sala dello Scrutinio è come calarsi dentro la scena drammatica della modernità, senza che ci vengano offerte vie di fuga un po’ velleitarie in direzione di mondi e culture innocenti (un’impostazione di cui risente la Biennale, come ha giustamente sottolineato Ester Coen sull’ultimo «Alias-D»). Kiefer si confronta con la storia e con la sua illogicità, come scrive nella lettera del luglio 2021 in cui spiega a Gabriella Belli le prime linee del progetto: «In Andrea Emo», scrive Kiefer, «ho trovato conferma che la storia è una catena di azioni illogiche, astoriche, avvenimenti che non hanno nulla a che fare con causa ed effetto». Proprio una frase del filosofo Emo ha ispirato il titolo della mostra: Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Venezia, Palazzo Ducale, fino al 29 ottobre).
Non bisogna cercare uno sviluppo narrativo nei quattordici grandi pannelli dipinti che l’artista ha disposto lungo le pareti della sala, coprendo le opere che dopo l’incendio del 1577 avevano rapidamente sostituito quelle andate perdute. «Non riprodurrò la storia di Venezia, i suoi costanti alti e bassi, cronologicamente, bensì come simultaneità, la simultaneità di un qualcosa e del nulla», aveva scritto Kiefer in quella stessa lettera.
In realtà tanti segni e tante memorie di Venezia emergono nel tumulto della sua pittura, a partire da quell’impronta stilistica così vorticosamente tintorettesca. Sono segni che vengono trasfigurati in metafore attraverso le quali operare dei carotaggi nel tessuto geologico della storia. «L’arte», scrive sempre l’artista, «va continuamente avanti e indietro, su e giù per la scala di Giacobbe dell’evoluzione, e a volte, quando la fortuna le sorride, riesce a scandagliare un abisso inesplorato».
Proprio il pannello con una scala di Giacobbe ci accoglie sulla parete d’ingresso; è un soggetto che Kiefer aveva affrontato in occasione delle sue lezioni al Collège de France (raccolte nel libro L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli 2018). La scala spacca in due la tela, alzandosi da un terreno acquitrinoso che forse allude alle origini di Venezia; appese ai gradini o distribuite tutt’attorno si scorgono tracce umane, come indumenti o scarpe. Quanto agli angeli, li troviamo in proporzioni ingigantite, nei sovrapporta sulla stessa parete. Uno dei due, come nota Salvatore Settis nel suo saggio in catalogo, ricalca l’archetipo della Vittoria alata della Colonna Traiana, che regge tra le mani lo scudo strappato al nemico sconfitto. Nella versione di Kiefer lo scudo prende però le forme di una grande tavolozza, strumento del destino chiamato ad agire, avendo a disposizione solo i colori arsi delle rovine.
In realtà l’artista fa ricorso, come gli è consueto, a una gamma vastissima di materiali: carboncino, gommalacca, colori acrilici, corda, stoffa, carta cerata, cavi di metallo, legno cauterizzato, paglia, cartone, foglia d’oro, oggetti di zinco, acciaio, piombo, cuoio. Ingredienti che Kiefer sceglie «in base al loro potere oggettuale, alle loro potenzialità espressive e combinatorie» (Settis). C’è anche il colore, ovviamente. Come quel bianco esplosivo che accende al centro il Pannello 4 e che Kiefer rivela essere esito di un secchio rovesciato sul quadro da un’altezza di dieci metri.
Se nel Venice Cycle non possiamo identificare un inizio o una fine dal punto di vista narrativo, c’è però un’opera da cui il ciclo ha preso il via, come testimonia Kiefer nell’intervista ad Hans Ulrich Obrist pubblicata in catalogo. È il grande Pannello 7, di oltre quindici metri di lunghezza, che prende quasi tutto il lato rivolto verso il cortile di Palazzo Ducale. In questa impressionante visione simultanea della Storia, nella fascia bassa sfilano soldati con le uniformi consunte, relitti di tante guerre che hanno segnato la parabola di Venezia; nel registro centrale si riconoscono invece le architetture della città, assediata dai turisti, dipinti sotto la pelle della pittura e quindi non immediatamente riconoscibili; in alto, infine, sventola un gigantesco stendardo con il simbolo del leone: i colori fiammeggianti che lo divorano sembrano esito di un’autocombustione per eccesso di ambizioni di gloria.
Diverso l’approccio che incontriamo nel Pannello 3: qui Kiefer mette in azione uno dei nuclei genetici dell’identità veneziana, quello del corpo di San Marco, con tutte le traversie che ne hanno contrassegnato la storia. Una grande bara di zinco, aperta e vuota, è posta trasversalmente sul pannello e allude al trafugamento del corpo del santo, episodio dipinto da Tintoretto. All’interno, oltre a due rami di girasoli, c’è un piccolo sacchetto con le reliquie; attorno, invece, i rami disegnano degli archivolti che ricordano i motivi architettonici della basilica marciana. È un’opera quasi incantata, poeticamente sospesa su un’assenza: ogni dipinto, dice Kiefer, è «un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa, un’incessante oscillazione da uno stato all’altro».
La modernità riemerge impetuosamente nel Pannello 2, un altro dalle misure imponenti. Nel registro superiore vediamo una sfilata di carrelli della spesa e di tricicli. Sono carichi in modo strabordante di mercanzie diverse, carbone, paglia, o prodotti della terra che evocano l’antica ricchezza veneziana: è però una ridondanza disperata, manifestazione di una globalizzazione regredita a sintassi primitiva. A ogni carrello è poi appeso un cartellino di zinco con indicato il nome di un doge, creando così una relazione con i loro ritratti dipinti sul registro alto del muro della Sala, ben visibile al di sopra dell’installazione di Kiefer. In questo corteo da fine della Storia, che sfila da sinistra verso destra, si percepisce il segno di un’antica regalità, ridotta però a relitto di se stessa.
Davanti alla scena tracollante della Storia Kiefer non si rifugia però in un’estetica del disastro. Il suo, al contrario, è un atto maestoso e potentemente interrogativo, reso possibile grazie a una pittura di straordinaria prodigalità, dove la monumentalità dell’esecuzione è funzionale a restituire l’intensità della visione e la profonda commozione per il destino del mondo.