Nel 1980 Anselm Kiefer e Georg Baselitz rappresentano la Germania alla Biennale nel Padiglione che anche Hitler aveva visitato nel 1938. Baselitz espone una monumentale scultura primitivista in legno (Modello per una scultura) che ha un braccio teso che sembra un saluto nazista, mentre Kiefer propone una serie di opere intitolate programmaticamente Bruciare, lignificare, affondare, insabbiare, che sono dei libri con foto, scritti e disegni (che sembrano scampati a un incendio) e dei dipinti dedicati agli Eroi spirituali della Germania, da Parsifal in poi. Con questi lavori i due artisti affrontano in modo provocatorio e anche epico i nodi più problematici e tragici della memoria storica del loro paese, aprendo il vaso di Pandora dell’ideologia nazionalistica e nazista. Il contraccolpo è violento, addirittura con accuse di glorificazione del passato soprattutto da parte della stampa tedesca, che fa un collegamento anche con il film documentario di Syberberg Hitler, un film della Germania, specchio del dramma colpevole di un popolo che è stato capace di credere alle visioni deliranti del dittatore. Per Kiefer la rottura del silenzio, della rimozione collettiva, significava che «il passato non è mai passato».
Dal punto di vista specificamente artistico, questo evento si inscrive nella svolta postmoderna che segna il rilancio in grande stile della pittura e della scultura dopo gli anni delle ricerche minimali, processuali e concettuali, svolta internazionale trainata in particolare dall’emergere della Transavanguardia in Italia, ma soprattutto dal successo di artisti tedeschi neoespressionisti come Baselitz, Penck, Lüpertz, Immendorf, oltre che da Kiefer. Quest’ultimo è capace di rielaborare temi e problematiche già presenti per molti versi nel lavoro avanguardistico del suo maestro Joseph Beuys in una narrazione pittorica e plastica caratterizzata da una dimensione epica, letteraria, filosofica, storica e esoterica in cui risuona l’eco del Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria. I rischi della retorica monumentale sono sempre in agguato, ma Kiefer è tra i pochi che è riuscito a dimostrare che la pittura può ancora essere un linguaggio di straordinaria energia espressiva e visionaria, con una specificità di impatto culturale, estetico e emotivo irriducibile e insostituibile.
La scala imponente delle sue opere, la dismisura dei suoi progetti (come le drammatiche torri di cemento in equilibrio precario), le sue cripte e i suoi padiglioni che formano lo straordinario complesso museale autocelebrativo nel vasto parco naturale di Barjac nel sud della Francia (a cui ha lavorato dal 1993 al 2007), sembrano rivelano in modo eclatante il quasi demiurgico potere della sua attività creativa. Anche se in una dimensione relativamente più circoscritta, questa ambiziosa grandiosità si ritrova anche nella vasta retrospettiva che il Centre Pompidou gli ha dedicato per celebrare il suo settantesimo anniversario. La mostra, aperta ancora fino al 18 aprile, mette in scena circa centocinquanta opere, tra cui una sessantina di dipinti fondamentali a partire dagli anni settanta, una gigantesca installazione, una serie magnifica di opere su carta , una grande sale di vetrine di ispirazione beuysiana e anche un gruppo importante dei suoi famosi libri di plumbea pregnanza (esposti però in gran parte nelle sale della Bibliothèque Nationale de France).
Il percorso espositivo si sviluppa attraverso una suite di tredici sezioni che affrontano in modo cronologico e tematico i principali aspetti della sua produzione: la questione della storia tedesca (anche legata a esperienze autobiografiche); le devastazioni reali e morali del nazismo e della guerra; la riattivazione della memoria; i segreti disegni del fato che condizionano i destini dell’umanità; la concezione vichiana e nietzschiana della ciclicità del tempo; le suggestioni mitologiche, cosmologiche, alchemiche e cabalistiche.
Numerosi sono anche i rimandi letterari, soprattutto alle poesie di Paul Celan e di Ingeborg Bachman, a cui Kiefer dedica specifici cicli di dipinti. E naturalmente non mancano i riferimenti figurativi: in particolare all’estetica delle rovine, alla pittura romantica di Friedrich, alla potenza metaforica dei girasoli di Van Gogh, oltre che all’ispirazione antroposofica di Beuys (da cui egli ha imparato a sfruttare l’espressività primaria e simbolica dei materiali naturali e industriali).
Tutti questi temi emergono fortemente impregnati nella fisicità della materia dei quadri e degli assemblaggi scultorei. Kiefer usa mezzi artistici classici mischiati con materiali di varia natura: argilla, gesso, vegetali (paglia, piante e semi di girasole, felci, papaveri, rami di alberi), cenere, sabbia e inserti metallici tra cui spicca come protagonista il piombo. Quest’ultimo è utilizzato per la sua drammatica cupezza, per la sua malleabilità, per i suoi significati simbolici e alchemici. Quando anni fa è stato rifatto il tetto del duomo di Colonia, l’artista ha acquistato tutte le vecchie ricoperture in piombo, avendo così a disposizione tonnellate di spessi fogli metallici ossidati e carichi di memoria storica. È tipico del suo modo di operare mettere da parte, in uno speciale deposito, da lui definito «Arsenale», ogni sorta di materiali per lui interessanti, che sono una miniera essenziale per la realizzazione delle sue opere.
Il primo spettacolare incontro che si fa al Pompidou è una gigantesca installazione collocata all’entrata: si tratta di una specie di plumbea costruzione a forma di parallelepipedo, senza aperture se non una porta da cui si entra in uno spazio con pareti anch’esse in piombo, ricoperte da migliaia di fotografie prese dall’artista nel corso di tutta la sua vita. Un monumento in parte autobiografico, che diventa un luogo di riflessione sul tempo e la memoria, il filo rosso di tutta la sua opera. Dopo questa ouverture, intitolata emblematicamente Salendo, salendo verso le vette, precipitati nell’abisso, la mostra inizia con i lavori giovanili, fortemente provocatori. Nel corso del 1969 Kiefer realizza una serie di autoritratti fotografici, intitolati Occupations, in cui appare vestito con l’uniforme militare della Wehermacht (che era di suo padre) facendo il saluto militare. In queste immagini ripete la posa in diversi luoghi d’Europa. La serie dei Simboli eroici (1970) è formata da dipinti fotorealistici che deriva dalla precedente, con l’aggiunta di rimandi alla cultura tedesca, dal romanticismo di Caspar Friedrich all’architettura neoclassica di Schinkel (così cara a Albert Speer, l’architetto ufficiale di Hitler).
Tra i successivi dipinti (caratterizzati ormai dal più tipico stile kieferiano) che si riferiscono agli orrori nazisti, il dittico Margarethe e Sulamith (1981 e 1983) è il più tragicamente poetico. Ispirato a una poesia di Paul Celan, scritta dopo la sua prigionia in un campo di concentramento, evoca le figure di una guardia tedesca e di una prigioniera ebrea, e i forni crematori, attraverso una pittura dai toni grigi, inspessita con inserti di paglia, cenere e sabbia. La dimensione epicamente drammatica della sua visione raggiunge gli effetti più affascinanti da un lato nella vastità delle scene di vuoti spazi architettonici devastati come per esempio Al pittore sconosciuto, in cui le romantiche rovine del tempio di Friedrich echeggiano dentro quelle degli scheletri di palazzi bombardati, e dall’altro lato, negli immensi campi di grano o di girasoli, solcati, bruciati, sterili, dove dal grigio e dal nero emergono segni contraddittori di vita e di morte (nei neri semi di girasoli e nei corvi che svolazzano c’è un omaggio diretto a Van Gogh). Questi campi altamente simbolici fanno riferimento anche all’ossessione del nazionalismo tedesco per l’identità del popolo fondata sul suolo e sul sangue.
Parallelamente al lutto per la propria cultura tedesca, Kiefer , dopo un viaggio in Israele e Medio Oriente, apre la sua narrazione pittorica anche ai miti antichi e alla mistica cabalistica. Entrano così in scena in certi quadri Lilith e il suo serpente, dei seraphim e dei sefirot. La cabala che interessa l’artista (e che sarà alla base delle sue ricerche più meditative e cosmologiche) è quella di Isaac Louria, vissuto nel XVI secolo, in cui la creazione viene articolata in tre fasi: tsimsoum (ritrattazione), chevirat hakelim (rottura dei vasi) e tiquoun (riparazione). Questa visione cosmogonica implica una nozione di incompiutezza, che Kiefer traduce in quella della nozione di «scacco creativo» per ciò che riguarda la sua stessa opera, la quale però, proprio per questa dimensione malinconica, continua ad alimentare la tensione viva della sua ricerca.