Mai come per un pugile il fallimento è sempre in agguato, sul ring e nella vita, in ogni scambio e ogni istante, è in agguato quel momento, dove improvvisamente puoi colpire l’avversario e vincere, diventare campione, oppure finire al tappeto e subito dopo nell’oblio, fuori combattimento e fuori da ogni gioco per sempre. Lo sport più drammatico e umano di tutti, annovera prototipi che ne hanno alimentato il mito di grandezza e crepuscolo, per alcuni con un finale molto tragico, come Carlos Monzon, Tiberio Mitri, Emily Griffith, e come scrisse il campione dei piuma Willie Pep con cupa amarezza, quando inizia il declino «prima si perde il movimento di gambe. Poi si perdono i riflessi. Poi si perdono gli amici».

SPESSO è proprio il prezzo finale che si paga alla gloria, come è accaduto anche al grande boxeur colombiano Kid Pambelè, campione del mondo dei welter junior, la cui parabola sportiva ed esistenziale è diventata una biografia narrativa dal titolo roboante, L’oro e l’oscurità (nella traduzione di Alberto Bile per Alessandro Polidoro editore, pp. 190, euro 15) scritta da Alberto Salcedo Ramos, maestro del giornalismo narrativo latinoamericano, vincitore con questo libro nella versione francese del Prix du Livre du Réel del 2017 come miglior libro di no fiction dell’anno.

IL LIBRO INIZIA NEL 1994, quando una troupe televisiva boliviana irrompe nella clinica psichiatrica dove il pugile è da tempo ricoverato, e l’immagine straziante del mito caduto in disgrazia che grida «Aiutatemi!» fa il giro del paese. Ormai Pambelé era diventato per i colombiani che una volta lo adoravano una macchietta: «Le droghe e l’alcol gli scipparono la forza», scrive Ramos, «la disciplina e la corona di campione. Gli fecero umiliare e infine distruggere la propria famiglia. Poi cancellarono in lui ogni traccia di vergogna. Lo esposero allo scherno: divenne il bruto che distruggeva con la testa l’impero costruito con i pugni», che fu superiore al mezzo milione di dollari. Eppure Pambelé aveva cambiato un modo di essere nel suo paese, non solo nello sport, come disse lo scrittore Juan Gossain: «Dopo Pambelé, anche i pugili peggiori hanno iniziato a credere che fosse facile diventare campioni. Un po’ come la sindrome di Gabriel García Márquez: nessuno scrittore colombiano osava cercare un editore internazionale perché pensava di puntare troppo in alto. Da García Márquez in poi, chiunque pensa di poter vincere il Premio Nobel. Per me Pambelé è il García Márquez del pugilato».

Alberto Salcedo Ramos costruisce in questo libro e con grande bravura una vera inchiesta giornalistica, un potente reportage esistenziale su una vita disperata, intrecciando una moltitudine di punti di vista e cercando di raccontare cosa produce la fama in un uomo prigioniero dell’epica del proprio passato, cercando di penetrare nei suoi abissi mentali. Lo scrittore reporter lo accerchia, lo bracca, tra le 38 persone che incontra e intervista c’è la sorella Julia, c’è Nelson Alquiles Arrieta, l’impresario che lo lanciò, e un altro Ramiro Machado che ne fece un campione, il giornalista Eugenio baena, il figlio Daniel Antonio, che vede la figura dal padre col filtro del cristianesimo, cioè «un’anima che vaga nella Valle della morte», l’allenatore Tabaquito Sanz, capace di raccontare invece il pugile, comprese le fragilità: «Commetteva l’errore di cominciare gli attacchi con il diretto destro, cosa che lo faceva sembrare un imbranato», ma «picchiava come una bestia».

TRA VITA E RING, i racconti delle due donne «ufficiali» di Pambelé, cioè Carlina Orozco e Amelia Bastardo, la voce del nipote Joe Luis, che ha conosciuto l’angelo e il demone, il nonno che gli regala lecca lecca e quello che sfascia la casa urlando «E sì cazzoooooo, io sono il campione del mondo!», il romanzo amaro del ragazzo povero che vendeva pesce porta a porta camminando a piedi scalzi, trova una sintesi.
Pambelé conosce ogni incontro a memoria, «devi solo dargli un nome, e lui parte. Racconta allora che Chang-Kil Lee l’ha atterrato con il destro e Victor Millòn Ortiz con il mancino. Che Hector Thompson l’ha messo fuori combattimento con un diretto alla mandibola e Norman Sekgpane con un gancio al fegato». Ma tutte le volte che Ramos lo incontra «è un dialogo fra sordi: lui, nascosto sotto un guscio impenetrabile, e io con le mani legate» ammette il reporter che per raccontarlo però non ha bisogno del suo memoriale, quello di uno che nella vita si era completamente perso di vista.