Kiarostami non è stato soltanto un cineasta, ma anche e soprattutto un artista totale, capace di esprimersi attraverso mezzi e linguaggi diversi. Di seguito alcune riflessioni estrapolate da un testo scritto di suo pugno come introduzione al libro «Kiarostami» (2003) edito da Electa

«Ho fatto molte cose nel corso della mia vita, e mi sono servito di strumenti diversi: la pittura, la grafica, la pubblicità, la televisione, il cinema, la fotografia, il video, la poesia. da ultimo, ho fatto anche del teatro. E potrei aggiungere altro alla lista. Per esempio, a un certo punto della mia esistenza, ho fatto della falegnameria, quando ho deciso di costruirmi da solo i mobili per la casa (…)».

«Penso che tutto ciò abbia a che fare con un problema di inquietudine per il fatto che si deve in qualche modo sopravvivere e reagire a un profondo senso di inadeguatezza. Avverto continuamente l’esigenza di fare qualcosa di nuovo per essere meglio accettato. Molti ritengono che ci si debba prefiggere uno scopo nella vita per avere successo, ma non credo che funzioni in questo modo. Forse nel campo degli affari o in ambito scientifico. Nell’arte, invece, il miglioramento può derivare solo dall’inadeguatezza (…)».

«Non c’è nessuna ragione particolare per la quale mi ritrovi ad essere regista cinematografico. Mio padre era un imbianchino e non mi ricordo di alcuna traccia di una vita culturale nella mia famiglia. Non vedo alcun segno particolare nel mio ambiente che avrebbe potuto spingermi verso la carriera artistica e specialmente verso il cinema. Forse è per questo che finora non sono riuscito a trovare una definizione di cinema. Però posso dire che cosa non mi piace in esso. Non mi piace quando ci si limita a raccontare una storia o a farne un surrogato della letteratura. Non approvo che si sottovaluti o si ecciti lo spettatore. Non voglio stimolarne la coscienza o creargli sensi di colpa. Quanto meno, credo che si dovrebbe cercare di raccontare la vicenda in modo tale che egli non sia portato a provare sensi di colpa. Considerato che il cinema ha il diritto di raccontare storie, mi sembra che il romanzo lo faccia meglio. Le commedie radiofoniche, i drammi e le soap opera televisive, in questo senso hanno un buon lavoro. Da qualche tempo sto pensando a un altro cinema che mi renda più esigente e si definisca come settima arte (…)».

«Non sopporto il cinema narrativo. Lascio la sala. Più esso si impegna a raccontare e meglio lo fa, più grande è la mia resistenza. Il solo modo di prefigurare un cinema nuovo è un maggiore rispetto per il ruolo dello spettatore. Occorre prefigurare un cinema «in-finito» e incompleto, in modo che lo spettatore possa intervenire riempiendo i vuoti, le lacune. La struttura del film, invece che solida andrebbe indebolita, tenendo presente che non si devono far scappare gli spettatori! Forse la soluzione giusta è di stimolare gli spettatori a una presenza attiva e costruttiva. Per questo sto meditando su un cinema che non fa vedere. Credo che molti film mostrino troppo, e quindi, perdano d’effetto (….)».

«Con il passare del tempo, la mia attrazione per tante cose diminuisce di giorno in giorno. Voglio dire che non ho più lo stesso grado di inquietudine per i miei figli come prima, che il desiderio di vedere i miei amici è meno grande. Ciò che ha preso il posto di tutto ciò e che diventa sempre più forte, benché non mi interessasse in gioventù, è il desiderio di essere nella natura».