In una conversazione di qualche anno fa (pubblicata sul quotidiano francese Libération), tra le dieci date «chiave» della sua vita – la nascita, il diploma, la morte del padre, il matrimonio, la nascita del figlio, il divorzio, il terremoto in Iran nel 1990, il primo viaggio in Africa – Abbas Kiarostami – morto lunedì sera a Parigi dopo una lunga malattia – metteva anche il giorno in cui aveva ripreso a fumare. «Ieri ho deciso che fumare fa anche bene alla salute. Non fumavo da quarantadue giorni, mi ero ingrassato quattro chili. Ero sempre più depresso. Ho capito troppo tardi che le cose cattive sono anche buone e viceversa. Il fatto in sé non mi serve a molto ma mi ha aiutato a fare una scelta importante che mi permetterà di dimagrire e di uscire dalla mia depressione: ricominciare a fumare …».

La sfumatura paradossale di questo racconto è lo stessa che ritroviamo nei suoi film, nelle sue storie in bilico sull’ambiguità del reale che hanno reso Kiarostami uno dei più grandi cineasti contemporanei. Tempo (cinematografico), inquadratura, umorismo e poesia, perché la questione non è mostrare la realtà così come è ma coglierne il segreto racchiuso nella sua evidenza, l’istante che balena nel battito dell’occhio: aperto/chiuso. «Rosselliniano» (almeno nei primi film) più che neorealista il suo cinema nella relazione serpentina, come le strade che percorrono i personaggi che lo abitano tra sogno e realtà, tra il bordo delle immagini e ciò che accade oltre il «quadro».

È stato questo, probabilmente, che gli ha permesso di attraversare più epoche nel suo Paese, lo Shah e la rivoluzione khomeinista, che condividono controllo e censura nei confronti degli artisti. Qualcuno lo aveva anche accusato di «opportunismo culturale», di non prendere mai posizione, ma è invece proprio la dialettica la sua dichiarazione politica più netta: lo spazio conquistato, e continuamente rivendicato che interroga l’immaginario, dunque una possibile coscienza collettiva, chiedendo con le sue ellissi narrative allo spettatore una partecipazione quasi alla prima persona. Pensiamo a un film come Close up, la vicenda dell’uomo che si fa passare per un altro grande regista iraniano, Makhmalbaf, destabilizza nel dispositivo cinematografico di Kiarostami la nozione di vero e di falso, di «riproduzione» e di simulacro, ma soprattutto ci dice che nessuna immagine può essere mai neutrale.

Close-up (1990) è anche il film che fa conoscere Kiarostami, a cui in Italia per primo Rimini cinema, un festival ormai scomparso, aveva dedicato una personale già nell’89. E l’anno dopo, sarà la Mostra del Nuovo cinema di Pesaro diretta allora da Adriano Aprà a rivelare da noi quel cinema iraniano quasi sconosciuto e vivissimo, superficialmente considerato «di regime» – si scoprirono tra gli altri i film di Amir Naderi.

Dietro alle lenti scure che gli coprivano gli occhi, lasciando intuire gentilezza, attenzione e un enigmatico distacco, Kiarostami sapeva cogliere i piccoli dettagli capaci di restituire una dimensione universale. Un quaderno di scuola dimenticato diventava così l’odissea attraverso i villaggi iraniani di un bambino testardo, che grida molto nel tentativo di scuotere dall’indifferenza gli adulti intorno a sé. (Dov’è la casa del mio amico?, 1987). E a piedi o al volante di un automobile, attraverso un vetro che è a sua volta uno schermo, i suoi personaggi ci conducono in un Paese, l’Iran, lontano dall’ideologia della sua rappresentazione. Il che non vuol dire che ne ignori i conflitti – pensiamo alle conversazioni della magnifica protagonista di Ten (2002) che danno voce ai desideri e ai tabù del femminile e nella sequenza da 10 a 1, mostrano una società iraniana attraversata dal desiderio di cambiamento e di democrazia.

Nato a Tehran nel 1940, Kiarostami appartiene a quella generazione di registi della nuova onda iraniana cresciuta a dagli anni Sessanta fino al 1979, l’anno della Rivoluzione khomeinista, tra i cui pionieri c’è anche la magnifica Forough Farrokhzad, con la quale Kiarostami condivide l’approccio poetico – trasfigurato – sulla realtà – e da un suo verso Kiarostami prenderà il titolo di E il vento ci porterà via (’99). Come lei è anche poeta e pittore anzi al cinema, lo diceva spesso, era arrivato quasi per caso, dalla scuola di arte prima e poi dalla pubblicità, grazie al lavoro nel dipartimento cinematografico del Kanun, l’istituto per «lo sviluppo intellettuale dei giovani e degli adolescenti» (voluto dalla moglie dello Shah) che aveva il compito di realizzare film educativi per ragazzi, e che divenne una sorta di laboratorio per i giovani registi iraniani.
Nel 1970 Kiarostami gira il suo primo film, un cortometraggio, Il pane e il vicolo.

Tutto è già lì: un corpo, un ostacolo, ingegnarsi per aggirarlo, la commedia dell’umano nella vicenda di un ragazzino che deve affrontare un cane aggressivo per tornare a casa con il pane. La sfida è filmare il soffio di vento, scompigliare le regole del cinema classico seguendo una lattina che rotola in strada, il tortuoso zig zag di una vettura guidata da uomo alla ricerca di qualcuno che lo faccia scomparire dopo il suicidio (Il sapore della ciliegia, 1997). Il paesaggio emozionale e fisico nel quale vagano i suoi personaggi ricorda una miniatura, cattura il respiro della natura, è la terra distrutta dal terremoto o il caos digitale dei clacson nella metropoli.

Non sappiamo perché il signor Badii , il protagonista di Il sapore della ciliegia (Palma d’oro a Cannes) vuole suicidarsi, perdendo per sempre la possibilità di assaporare la dolcezza del frutto, ma all’improvviso il «sipario» si alza e sulle note di Louis Armstrong scopriamo la troupe di Kiarostami mentre prepara un’inquadratura.

Vero/falso ma come diceva il regista iraniano, la cosa più importante è che lo spettatore (godardianamente, ed è Godard a dire che il cinema inizia con Griffith e termina con Kiarostami) sia consapevole delle menzogne utilizzate per arrivare a una verità più grande. È la forza segreta di un discorso amoroso (Sotto gli ulivi) o il regista che cerca il personaggio del suo film precedente (E la vita continua). Una «copia conforme» per citare uno dei suoi titoli più recenti, che lo porta con Juliette Binoche in Toscana. A cui segue il Giappone dello struggente omaggio a Ozu in Qualcuno da amare. Il suo prossimo progetto lo avrebbe portato in Cina, ma la malattia lo ha fermato per sempre.