«Ho sempre avuto il vizio di non saper tenere la bocca chiusa», confessa Khedidja Sayah, membro della segreteria confederale della Cgil di Reggio Emilia; impegnata da oltre un decennio nella difesa dei lavoratori del territorio. È fuggita dall’Algeria nel ‘98 per seguire il marito originario della Guinea. In quegli anni il gruppo islamico armato reagiva al colpo di stato dell’esercito militare con continue azioni terroristiche. «Gli stranieri erano un bersaglio ed io avevo paura per il mio ex marito». La coppia decide dunque di partire per l’Italia, destinazione Napoli, dove una nutrita comunità guineana è pronta ad accoglierli.

Quando arriva in città ha 29 anni e una laurea in ingegneria elettrotecnica ma ha bisogno di soldi, così accetta subito il primo lavoro che trova in rosticceria. Rimarrà a lavorare al girarrosto per ben 4 anni, senza alcuna tutela. Dopo la nascita della figlia, Khedidja cerca una maggiore sicurezza lavorativa e decide di trasferirsi con la famiglia in Emilia. Qui, attraverso un’agenzia interinale ottiene un posto da operaia alla Tecnogas di Gualtieri – bassa reggiana – in un’azienda produttrice di elettrodomestici e cucine. La tranquillità sperata però non arriva; per un anno rimane con dei contratti a scadenza mensile e solo nel 2007 ottiene finalmente un contratto a tempo determinato. In fabbrica viene avvicinata da un delegato storico della Fiom Cgil, che la incoraggia ad iscriversi al sindacato.

Appena un anno dopo è eletta come delegata sindacale; lavoratori italiani e stranieri decidono di darle fiducia. I colleghi la rispettano perché grazie al suo italiano semplice e chiaro riesce a farsi capire da tutti con facilità. Quando nel 2008 inizia la sua attività sindacale, il gruppo Merloni – a cui fa capo la Tecnogas – è travolto dalla crisi: «Ho dovuto guadagnare la fiducia dei miei colleghi in un momento difficile. All’inizio c’era diffidenza nei miei confronti, ma a me non interessava il colore della pelle, né il mio né quello dei lavoratori che rappresentavo. Io vedevo solo le loro tute blu tutte uguali e i loro volti stanchi da difendere».

[do action=”citazione”]A poco a poco gli operai abbandonano ogni perplessità e in lei iniziano a riconoscere il riflesso di sé stessi: «Ad un certo punto hanno smesso di guardarmi come una donna straniera e hanno preso a considerarmi come la rappresentante sindacale che difendeva i loro diritti».[/do]

Nel 2009 passa al sindacato provinciale e comincia ad occuparsi delle piccole e medie imprese. Le differenze culturali tra i lavoratori sono molte ma Khedidja sa colmarle con la parola e il suo modo di ragionare calmo. «Agli stranieri che sono disposti a lavorare oltre l’orario stabilito dal contratto racconto la storia del movimento operaio italiano, gli parlo delle lotte, del sangue e delle morti che quei diritti sono costati. Loro capiscono ed imparano a dire di no. È così che si costruisce l’integrazione».

Le vere differenze però non riguardano i lavoratori. «Non siamo tutti uguali: c’è il padrone che è proprietario dell’azienda e poi ci sono i dipendenti che ci lavorano». I rapporti tra esseri umani sono diversi nelle due categorie. «Per il padrone siamo in un certo senso “indifferenti”; mi ricordo di un vecchio proprietario che in ufficio aveva il poster della Lega. Non aveva simpatia per gli stranieri, eppure in fabbrica di operai italiani ne aveva pochissimi. Il capitalista in realtà non è mai razzista perché sfrutta tutti allo stesso modo». Nel bilancio a fine anno di un’azienda poco importa di che colore sono le mani di chi ha prodotto la merce, i dipendenti non sono che una variabile nella magica formula del profitto.

«La piena uguaglianza è possibile solo fra noi lavoratori – prosegue- ricordo ancora quando il sindacato mi chiese di lasciare alcune delle aziende che difendevo per dedicarmi a nuove vertenze. Un lavoratore italiano mi si avvicina e a nome di tutti dice: “Ci portano via la nostra Khedi e questo ci dispiace perché lei ci ha insegnato cos’è la dignità”». A quell’anonima variabile, Khedi ha restituito coscienza. Ha spiegato agli operai che i diritti non sono un dono di natura ma il frutto di una storia scritta da uomini come loro. «Ci vogliono divisi: uomini e donne, vecchi e giovani, stranieri e italiani, ma l’unico diverso – ribadisce – è chi trae profitto dal nostro lavoro senza rispettarne il valore».

L’azienda dove lavorava Khedidja dopo dieci anni è ancora in crisi. Degli oltre 500 operai che ci lavoravano, ne sono rimasti poco più di 250. Non è ancora certo quale sarà il futuro della fabbrica. Il gruppo industriale turco Snv ha presentato un’offerta d’acquisto che a marzo scorso è stata accettata dall’azienda, ma dopo i tanti operai lasciati a casa è difficile parlare di lieto fine. Le battaglie vinte però non saranno dimenticate. «La Tecnogas era un’azienda sana – denuncia la sindacalista – il gruppo Merloni l’ha utilizzata come vittima sacrificale per tappare dei buchi in bilancio e questo ha trascinato l’intera fabbrica nella crisi».

Il commissariamento -spiega- è stato una piccola vittoria per i lavoratori, perché ha reso possibile lo scorporamento del ramo d’azienda Tecnogas dal gruppo Merloni, evitandole nell’immediato un disperato naufragio. Per Khedidja quel risultato è stato importante: «All’inizio volevo salvare il mondo, poi ho capito che quei lavoratori erano il piccolo mondo di cui dovevo prendermi cura e l’ho fatto anche a costo di sacrificare la mia vita personale». Con un filo d’amarezza lascia intendere che come donna ha dovuto pagare un prezzo più alto. Qualche secondo di silenzio, poi subito ritorna a parlare al plurale: «Noi donne abbiamo sostituito il welfare sociale che a poco a poco è stato distrutto; anche questa è un’ingiustizia che dev’essere combattuta».