Le indiscrezioni sull’esistenza di prove nelle mani degli investigatori turchi che dimostrerebbero come il giornalista dissidente Jamal Khashoggi, scomparso il 2 ottobre sia stato ucciso all’interno del consolato saudita a Istanbul, ieri viaggiavano in parallelo alle manovre diplomatiche avviate da Riyadh per limitare i danni provocati dalla vicenda. Secondo il Washington Post, giornale per il quale scriveva Khashoggi, il governo turco avrebbe riferito a funzionari Usa di essere in possesso di registrazioni audio e video che provano come l’assassinio del giornalista sia stato compiuto da agenti e funzionari dei servizi di sicurezza sauditi all’interno del consolato dove si era recato Khashoggi. «Si può sentire la sua voce, si può sentire come è stato interrogato, torturato e ucciso», ha raccontato una delle fonti al quotidiano statunitense. Se le prove in mano ai turchi si confermeranno concrete, il cerchio si stringerà ancora di più intorno alla monarchia saudita responsabile di aver avallato la brutale uccisione di un oppositore che aveva osato criticare la casa reale e in particolare il 31enne rampollo reale ed ex ministro della difesa, Mohammed bin Salman, nominato un anno fa erede al trono e diventato l’uomo più potente della petromonarchia. Non è destinato ad impressionare positivamente l’arrivo ieri di una delegazione di alti funzionari sauditi incaricati di partecipare le indagini svolte dai turchi.

Mohammed bin Salman ha fatto il passo più lungo della gamba, spinto dal delirio di onnipotenza che negli ultimi tre anni lo ha portato ad aggravare lo scontro con l’Iran, a scatenare una sanguinosa offensiva militare in Yemen e ad abbandonare i palestinesi pur di trovare con Israele, dietro le quinte, un’intesa strategica contro Tehran. Delirio che ora presenta il conto. A causa della scomparsa di Khashoggi alcuni grandi imprenditori hanno deciso misure di ritorsione contro Riyadh. Richard Branson, fondatore del colosso Virgin, ha annunciato il congelamento di due progetti turistici in Arabia saudita e lo stop ai negoziati per l’investimento di un miliardo di dollari nel settore spaziale. «Se fosse provato quello che si riferisce sul caso, cambierebbe la capacità di ognuno di noi in Occidente nel fare affari con i sauditi» ha commentato Branson. E dopo il New York Times che ha annunciato la revoca del patrocinio alla “Saudi Future Investment Conference”, la “Davos del deserto” prevista a Riyadh a partire dal 23 ottobre, anche il network tv Cnn e il Financial Times hanno ritirato la propria partecipazione al meeting, seguite da Uber, Viacom e l’Huffington Post. La conferenza si terrà al Ritz-Carlton, lo stesso hotel della capitale dove quasi un anno fa decine di dignitari, ex ministri, ufficiali delle forze armate e miliardari come Walid bin Talal restarono detenuti per settimane durante una presunta “campagna anti-corruzione”, in realtà una retata di oppositori dell’erede al trono.

Dietro il volto sorridente di Mohammed bin Salman che accompagna la sua campagna globale di pubbliche relazioni, qualcuno scorge ora il lato oscuro del principe saudita osannato come un “innovatore” solo perché ha concesso alle donne di guidare l’auto. E se ora le saudite hanno la possibilità di mettersi al volante, allo stesso tempo non possono reclamare altri diritti. Lo dimostrano i recenti arresti di attiviste dei diritti delle donne. «Non voglio sprecare il mio tempo», ha dichiarato il principe quest’anno al Time Magazine, lasciando intendere che non tollererà alcun dissenso nel rimodellare il regno a sua immagine. Jamal Khashoggi ne è un chiaro esempio