Le porte del consolato saudita di Istanbul restano serrate ma le indagini sulla scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi proseguono. Vanno avanti con l’analisi delle telecamere di sorveglianza, dei visti di ingresso e uscita dalla Turchia, delle dichiarazioni di funzionari della rappresentanza diplomatica.

E gli elementi in mano agli investigatori aumentano: si sa che Khashoggi è entrato nel consolato poco dopo le 13 del 2 ottobre e non più uscito; si sa che 45 minuti prima erano entrati 15 cittadini sauditi, usciti due ore dopo a bordo di veicoli con vetri oscurati e targa diplomatica; si sa che quei 15 sono transitati dall’aeroporto di Istanbul, arrivati su due aerei privati e ripartiti verso diverse destinazioni.

E si conoscono le loro identità, secondo fonti vicine alle indagini. La carica di uno di loro, in particolare, accende una lampadina: il capo del dipartimento forense della sicurezza generale saudita. Altri tre sarebbero membri dell’unità di protezione del principe ereditario Mohammed bin Salman, uomini di fiducia di colui che è unanimamente considerato il vero reggente della petromonarchia.

Si sa anche che quel giorno ai 28 dipendenti turchi del consolato è stato chiesto di non presentarsi al lavoro perché si sarebbe tenuta un’importante riunione diplomatica. Eppure a Khashoggi era stato dato appuntamento per quel giorno, per ritirare i documenti del divorzio. Per ora si è fermi a martedì, quando l’Arabia saudita ha garantito agli ispettori turchi l’ingresso in consolato, ma a oggi nessuno è stato fatto entrare.

Fornisce elementi in più il Washington Post, il quotidiano statunitense su cui Khashoggi scriveva: l’intelligence Usa avrebbe intercettato discussioni tra funzionari sauditi su un piano per catturare il giornalista e riportalo in patria.

Non ci è tornato: secondo una fonte turca citata dal New York Times, «Khashoggi è stato ucciso entro due ore dal suo arrivo al consolato da un team di agenti sauditi, che hanno smembrato il suo corpo con una sega ossea portata per l’occasione». «È come Pulp Fiction», ha concluso. Un commando vero e proprio per eliminare un dissidente.

La fidanzata di Khashoggi, Cengiz, ha fatto appello al presidente Trump perché intervenga (ieri il vice presidente Pence ha detto che Washington è pronta ad aiutare in ogni modo) e a Riyadh perché metta a disposizione le immagini delle telecamere interne al consolato.

Una situazione esplosiva che mette a repentaglio le relazioni (almeno quelle ufficiali) tra due alleati granitici, Stati uniti e Arabia saudita, e pone la Turchia in una difficile posizione: non è un caso che, al di là delle dichiarazioni di Erdogan, ogni informazione sulle indagini esca sotto forma di indiscrezioni anonime. Ankara non vuole lo scontro diretto con la guerra in Siria ancora aperta e le relazioni con gli Usa al minimo storico.

Ma perché eliminare un noto dissidente, in autoesilio negli Usa, dentro un proprio consolato in un paese con cui i rapporti sono gelidi? Perché non eliminarlo all’esterno? È probabile che Riyadh intenda, pur mantenendo le apparenze, inviare un messaggio a ogni voce critica delle politiche di Mohammed bin Salman: chi è contro è in pericolo ovunque si trovi.

Il regime ha chiuso ogni spazio di dibattito, attraverso le epurazioni dell’élite politica ed economica saudita (lo scorso novembre furono centinaia i principi, gli ex ministri, i generali dell’esercito arrestati) e la detenzione di almeno 15 giornalisti e blogger nel corso dell’ultimo anno. Di loro in molti casi, sottolinea Reporter senza Frontiere, non si conoscono né il luogo di detenzione né l’accusa.

Una campagna rischiosa: se la guerra contro lo Yemen non scuote le relazioni internazionali, il caso di Khashoggi potrebbe farle traballare. Soprattutto negli Usa dove si stanno aprendo brecce nel muro di gomma: un anno fa 47 senatori hanno votato per lo stop alla vendita di armi a Riyadh, perdendo contro 53 favorevoli. Hanno vinto i Saud ma con uno scarto minimo. E ieri Trump ha detto di aver parlato con le autorità saudite del caso.