No al colpo di stato militare, no all’accordo tra il generale golpista Abdel Fattah Al Burhan e il premier Abdalla Hamdok. Lo hanno urlato migliaia di persone tornate lunedì sera e ieri a protestare nelle strade di Khartum e di altre città sudanesi contro il colpo di Stato dello scorso 25 ottobre. E contro il nuovo power sharing, civili e militari assieme, frutto dell’accordo in 14 punti sottoscritto il 21 novembre dal generale Abdel Fattah Al Burhan, a capo del golpe, e il premier Abdallah Hamdok, prima arrestato e destituito e poi rimesso al suo posto per placare le condanne internazionali e le proteste interne. Per i sudanesi il nuovo power sharing è una messinscena volta a nascondere la realtà dei militari saldamente al potere. Hamdok è accusato di aver «svenduto la rivoluzione» del 2019 che mise fine al lungo regno di Omar Al Bashir. «Se la creazione di corpi fittizi potesse proteggere l’autorità, allora Al Bashir sarebbe ancora al potere», hanno commentato i leader dei Comitati popolari di resistenza rispondendo alle domande del quotidiano Al Sudani. Qualche giorno fa Sulaima Al Khalifa, un difensore dei diritti umani, aveva descritto la nuova divisione del potere come «uno shock: temiamo che ci sia stata una forte pressione su Hamdok perché quello che ha deciso di fare non è logico».

Assieme ai manifestanti ieri c’erano anche alcuni dei leader politici rilasciati di recente dopo mesi di detenzione. Tra di essi Wagdi Salih, alfiere della lotta alla corruzione, e l’ex ministro dell’industria Ibrahim al Sheikh arrestato durante il golpe. Le manifestazioni – si sono tenute anche a Port Sudan, Kassala, Nyala e Atbara – sono state pacifiche ma le forze di sicurezza, come altre volte, le hanno represse lanciando candelotti di gas lacrimogeno e sparando proiettili (pare) rivestiti di gomma. Nelle scorse settimane il fuoco di militari e poliziotti ha fatto almeno 43 morti, quasi tutti giovani, e centinaia di feriti. Il giorno più buio è stato il 17 novembre, quando sono stati uccisi 16 dimostranti. Ieri i militari golpisti non hanno bloccato, come in precedenza, il passaggio sui ponti che collegano Khartum alle due città satellite di Omdurman e Khartum Bahri, situate sull’altra sponda del Nilo. E questo ha contribuito ad allentare la tensione tra soldati e manifestanti diretti verso il Palazzo della Repubblica.

Hamdok intanto prova a spiegare la sua decisione di allearsi con Al Burhan. Per questo ha incontrato i rappresentanti delle Forze di libertà e cambiamento (Ffc), l’ex coalizione civile di cui ha fatto parte e che adesso lo critica apertamente per essere arrivato a patti con i golpisti. Ma la stessa coalizione è sotto accusa per le sue posizioni altalenanti. Prima ha respinto l’accordo politico con i militari dopo il reintegro di Hamdok. Poi è sembrata aprirsi al dialogo, infine è tornata alla sua contrarietà. Intanto l’Associazione dei professionisti sudanesi, che ha organizzato le proteste di ieri, accusa Hamdok e Al Burhan di voler «riprodurre il sistema di Al Bashir».

Se i sudanesi non si arrendono al colpo di stato e continuano a lottare, la «comunità internazionale» invece pare aver già digerito l’atto di forza dei militari abbellito dal ritorno di Hamdok alla guida del governo.