«Se le nazioni imparassero a raggiungere la piena occupazione con le loro politiche interne, non ci sarebbero più forze economiche che mettono gli interessi di un paese contro quelli dei vicini (…). Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è, cioè un espediente disperato per mantenere l’occupazione interna spingendo le vendite all’estero e limitando gli acquisti, che – se funziona – non fa altro che spostare il problema della disoccupazione sul paese vicino che esce in condizioni peggiori dalla lotta» (John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, interesse, moneta, 1936, capitolo 24).

Nessuno deve aver spiegato ad Angela Merkel questa considerazione di Keynes. La Germania – e l’Europa costruita a sua immagine – fonda il suo sviluppo sulle esportazioni e, per facilitare commerci e investimenti, si imbarca in un Trattato transatlantico che sarebbe il Titanic della democrazia. Qualche briciola di export in più è vista da Berlino, Bruxelles e Washington come l’unica via per tornare a crescere e rivincere le elezioni – quelle europee a maggio e quelle Usa di medio termine in autunno. Ma Keynes ci spiega che è una soluzione illusoria, pagata in Europa dalla depressione della periferia, che può trascinare con sé l’insieme dell’Europa. Le ombre degli anni trenta sono vicine, e rileggere Keynes può aiutarci a tenerle lontane.