Originato dal podcast delirante di due amici d’infanzia, concepito come un tributo al capolavoro landisiano Un lupo mannaro americano a Londra, in un equilibrio impossibile tra commedia demenziale, fiaba, horror truculento, Bunuel e melodramma, con un cast che include un ex teen idol, un ex bambino prodigio, una super star di serie A in incognito, il re del B movie Michael Parks e la figlia di Johnny Depp, Tusk è sicuramente il film più strano in cui si può incappare oggi in un multiplex Usa.

A giudicare dalle recensioni negative, e dalle tre persone in sala a metà pomeriggio in un cinema dell’Upper West Side, non ci rimarrà per molto. Ma, prima che venga risucchiato in qualche limbo di video on demand, vale sicuramente il costo del biglietto. Perché, tra le altre cose, Tusk è anche uno dei film più personali di Kevin Smith, e il migliore che ha realizzato da parecchi anni a questa parte.
Quando il Sundance Film Festival si svolgeva ancora sullo schermo unico dell’Egyptian Theater, sulla Main Street di Park City, e quando filmmaker e pubblico si ritrovavano in felice coesistenza, dall’altra parte della strada, allo «Z Place», Smith aveva folgorato l’edizione 1994 del festival con Clerks (in Italia, Commessi), commedia di vertiginose acrobazie verbali, scarti spericolati tra cultura high e low, in bianco e nero slavato, su tutto quello che succede in un minimarket di Red Bank (New Jersey) dove al tempo era impiegato lo sceneggiatore/regista.

Da quel gennaio ad oggi, Smith si è costruito una delle carriere meno classificabili della new wave indipendente anni novanta (Tarantino, Rodríguez, Hal Hartley, Richard Linklater, Whit Stillman…erano parte della stessa onda), sfornando numerose variazione sul tema di Clerks (Mall Rats, Clerks 2…), almeno un tentativo di aderire al mainstream indie (la commedia lesboromantica Chasing Amy), un disastroso action movie con Bruce Willis (Cop Out), un film accusato di blasfemia (Dogma), uno picchettato da fondamentalisti religiosi del Kansas (Red State, ispirato alle dottrine omofobiche della Westboro Baptist Church) e uno boicottato per via della rottura tra Jennifer Lopez e Ben Affleck (Jersey Girl).

Il suo è un percorso accidentato, che rifiuta con aggressività la normalizzazione che caratterizza la maggior parte del cinema indipendente americano degli ultimi 10 anni, e al quale Smith ha affiancato anche una forte presenza pubblica (twitter, podcast, dibattiti culturali, coverage dei tabloid) occasionalmente sull’orlo della crisi di nervi.

In questo contesto, Tusk è un film sorprendentemente disciplinato, coerente –se così si può dire della storia di un uomo il cui sogno è quello di trasformare un suo simile in un tricheco. Adattato da una storia improvvisata sul podcast che Smith tiene ogni settimana con il suo coproduttore e amico di sempre, Scott Mosier, il film inizia con un affilatissimo duello verbale online tra Wallace (Justin Long, con baffetti e sorriso furbastro che lo vorresti uccidere) e Teddy (il bambino di Il sesto senso, Haley Joel Osment), seguitissimi podcaster anche loro che annunciano un imminente viaggio in Canada per intervistare un ragazzino diventato celebrity globale on You Tube perché si è amputato una gamba imitando Uma Thurma in Kill Bill.

Ma quando Wallace arriva a Winnnipeg, il ragazzo si è suicidato e, in cerca di altre stranezze canadesi da somministrare alla sua cinica audience, Wallace si trova nella villa isolata di un vecchio signore che, in un messaggio lasciato nel bagno di un bar, promette di raccontare grandi avventure. Seduto su una sedia a rotelle davanti a un camino scoppiettante, Howard Howe (Michael Parks, splendido) ha chiaramente vissuto molto. Inizia infatti a evocare lo sbarco in Normandia al fianco di Hemingway, cita Coleridge parlando dei suoi viaggi di mare (Smith adora i riferimenti letterari e tutto questo film è un omaggio al gusto del racconto fiabesco/avventuroso anche nelle sue dimensione più paradossale) e ricorda di quando è naufragato nelle gelide acque della Siberia.

Sta cominciando a parlare del tricheco che lo ha salvato, Mr. Tusk, quando Wallace si addormenta come un sasso.
Al suo risveglio è su una sedia rotelle anche lui, e gli manca una gamba. Misery, Frankenstein, The Texas Chainsaw Massacre, il tardo Argento….e parecchi punti esclamativi, ti scorrono in mente quando scopri che la mostruosa operazione chirurgica non è che l’inizio di una metamorfosi ancora più grottesca con cui il folle signor Howe intende ricondurre le sembianze dello strafottente podcaster a quelle dell’amato Tusk. Da Los Angeles, arrivano intanto alla ricerca di Wallace, la fidanzata e Teddy, cui si unisce un detective del Quebec (verbosissimo anche lui e dietro a cui si si può riconoscere una star che ama perversioni come questa) da anni sulle tracce di un serial killer.

Aiutato, oltre che dalle interpretazioni degli attori, dal make up meravigliosamente inventivo di Robert Kurtzman, che dà all’implausibile creatura/creazione di Howe una credibilità quasi commovente, Smith tratta la sua premessa completamente ridicola in modo serio. Parte dello humor sta nell’accorgersi che anche tu, spettatore, sei quasi disposto a seguirlo su quella strada. È un equilibro difficile e affascinante quello di questo film, in cui l’autore di Clerks pare aver ritrovato se stesso. Tusk è allo stesso tempo divertente, mostruoso, demenziale e molto triste.