Introdotta dal dolente «That is no country for old men», che prefigura l’idea di un viaggio immobile, nella tensione tra senescenza del corpo e movimento dello spirito, Navigando verso Bisanzio, la poesia di W. B. Yeats contenuta nella raccolta del 1928 La torre, sembra avere suggerito a Kevin Barry la profanazione da cui partire con irriverente ribalderia per il suo terzo romanzo, L’ultima nave per Tangeri (traduzione di Giacomo Cuva, Fazi, pp. 244, € 18,50). I protagonisti, due anziani irlandesi di nome Maurice e Charlie, i cui nomi richiamano con prudente ma tutt’altro che innocente assonanza i Mercier e Camier dell’omonimo romanzo beckettiano, stazionano immobili al porto di Algeciras, umbratile cittadina andalusa di faccia al Marocco, da sempre snodo di esseri umani, droghe e traffici illeciti.

Niente affatto estranei a questi traffici, i due soggetti sono per l’appunto criminali a riposo, o come rivelerà lo stesso narratore alla fine del terzo capitolo, pirati, giunti alla fine delle loro scorrerie e costretti a contemplare il disfacimento del loro corpo e soprattutto del loro mondo, fatto di passaporti falsi e enclave cittadine dove potersi nascondere e godere delle «sette distrazioni della vita» elencate da Maurice: «amore, pena, dolore, sentimentalismo, cupidigia, lussuria, desiderio di morte».

Uscite violente
Il tempo è il presente, ma le digressioni arrivano ad abbracciare un trentennio al cui centro temporale sta l’anno 2000, mentre nell’«ultimo solstizio d’inverno del secolo» si consuma un momento chiave delle vicende narrate. Motivo conduttore del romanzo, la sparizione della figlia di uno dei due uomini (non si precisa quale), la ventenne Dilly, che forse – si dice – tornerà con il traghetto notturno da Tangeri.

Accartocciati sulla panchine della sala d’aspetto della stazione marittima, Maurice e Charlie rievocano le loro peripezie giovanili, si rammaricano degli amori perduti, si compiangono a vicenda, senza rinunciare a sporadiche eruzioni di violenza e aggressività nei confronti del prossimo: uno squatter di passaggio si presta allo sfogo magnificamente, in quanto indefinito rappresentante di una generazione «successiva» e dunque incompresa, nonché segno sbiadito della loro vita passata.

Barry è uno scrittore di atmosfere. La sua prima, e finora unica, apparizione in Italia, Il fiordo di Killary (Adelphi, 2012), rendeva conto delle sue prose brevi, con una scelta di estratti dalle prime due raccolte pubblicate, There are Little Kingdoms (2007) e Dark Lies the Island (2012) (più un racconto uscito sul «New Yorker»). Dalla lettura di quei racconti, stupefacenti condensati di humour noir à la Breton, in cui i personaggi, quasi sempre costretti a far fronte a situazioni inaspettate, finiscono per mostrare il loro volto più ambiguo e sinistro, si capivano già due caratteristiche decisive dello stile di Barry: un talento «cinematografico» nel dare vita agli ambienti che fanno da sfondo – spesso interni di pub pittoreschi, volgari, e pericolosi, ma talvolta anche colline e prati ventosi dell’Irlanda atlantica; e una inclinazione a intonare la lingua al lato più torbido dell’animo dei suoi personaggi-compatrioti. Elementi che si risolvono spesso in una esuberante irlandesità, manifesta – ad esempio – nell’andamento dei dialoghi, tendenzialmente infarciti di slang e volgarità gratuite, e sempre presente anche nelle descrizioni dei luoghi, minacciati da agenti atmosferici fastidiosi, ineludibile complemento alla rappresentazione della «Old weird Ireland», che per esplicita ammissione dell’autore è al centro della sua poetica.

L’ultima nave per Tangeri è un prodotto dello stesso laboratorio: paradossalmente, si direbbe, visto che la gran parte del romanzo è ambientata in una provincia spagnola; ma proprio il contrasto fra il contesto e il background dei protagonisti fa emergere con forza la loro incoercibile marca irlandese. E come nei racconti brevi, cui L’ultima nave sembra avvicinarsi più di quanto non si avvicini ai primi due romanzi (il distopico e linguisticamente più ardito City of Bohane, ambientato in un futuro prossimo senza tecnologia, e Beatlebone, il cui protagonista è John Lennon, vagabondante solitario in Irlanda) anche qui l’ambientazione – accuratamente resa attraverso precise descrizioni – costituisce un elemento fondamentale della narrazione, nonché uno spunto per diversi momenti comici.

Pur non raggiungendo le vette umoristiche dei racconti brevi, questo romanzo conserva il ritmo incalzante e la voce caustica del narratore, senza che la dilatazione della trama incida sull’efficacia del risultato. In aggiunta al calco dei nomi consegnati ai suoi protagonisti, Barry esplicita il riferimento a Samuel Beckett nel movimento stilistico indirizzato a una comicità ambigua e intrisa di più o meno silente drammaticità, e nella teatralizzazione dell’impianto romanzesco. Una brevissima sinossi dell’Ultima nave per Tangeri rivelerebbe quanto questo romanzo sia assimilabile a Aspettando Godot: due uomini lamentosi e acciaccati, quasi due barboni, stanno fermi in uno stesso luogo per tutta la durata dell’opera, in attesa di qualcuno che probabilmente non arriverà mai.

Yeats e Beckett: pretesti
Il riferimento è per Barry una pura suggestione, un punto di avvio quasi ludico, esattamente come lo sono i versi iniziali di Yeats, mentre nella caratterizzazione minuziosa dello spazio attorno a Maurice e Charlie si dispiega il suo gusto per l’eccedenza: i dialoghi, i nomi, gli aggettivi, la chiave della immobilità dei suoi personaggi, tutto è sovrabbondanza, in questo romanzo che riguarda anche l’amicizia, i rimpianti e la contraddittorietà della vita adulta, con flashback sulle disgrazie e sui tradimenti reciproci dei protagonisti e inserzioni pulp che virano verso atmosfere fumettistiche alle quali l’autore si abbandona agilmente e senza strafare. Anche l’immobilità di Maurice e Charlie è esuberante e riottosa; ma lo è nel rigore della sua coerenza, e proprio questo rigore li rende comici, esibendo quel tratto distintivo della narrativa di Kevin Barry, che non è immune da cinismo e da un sorriso ambiguo, intriso di una certa, tangibile, malinconia.