Nell’estate del 1962 la Germania sembra ancora avvolta in quel lungo dopoguerra che dopo una rapida, e spesso solo superficiale denazificazione ha visto molti «carnefici ordinari» riacquistare le posizioni di un tempo. Si pensa di aver chiuso definitivamente i conti con il passato, mentre una nuova cappa sempre più opprimente tenta di racchiudere la società entro i confini della morale e del perbenismo che si ammantano nuovamente di «tradizione». Ma, nel quartiere di Schawabing, a Monaco di Baviera, proprio quell’estate scoppierà quasi per caso in mezzo ai bar dove i giovani si ritrovano il sabato sera una rivolta che vedrà contrapporsi ragazzi spesso anche giovanissimi con le forze dell’ordine. Quasi un annuncio di ciò che, durante tutto quel decennio finirà per cambiare del tutto la società tedesca.

È in questo contesto, stretto tra le promesse di libertà e i tanti vincoli che ancora gravano sul presente, che la scrittrice di Potsdam, da tempo stabilitasi vicino a Monaco, Kerstin Cantz ambienta La signorina Zeisig e il caso della bambina scalza, pubblicato nella bella collana di gialli tedeschi di Emons (pp. 250, euro 15, traduzione di Anna Carbone). Si tratta della prima indagine della giovane Elke Zeisig, appena entrata nella sezione femminile della polizia locale che parteciperà all’inchiesta sull’uccisione di una serie di bambine e adolescenti mentre intorno a lei crescono le proteste per le strade della città che finiscono per lambire anche la sua famiglia, coinvolgendo anche suo fratello minore Volker.

La scrittrice Kerstin Cantz

Ha scelto di far debuttare il personaggio di Elke Zeisig durante la «rivolta» di Schwabing del 1962, un evento che sembra anticipare le grandi fratture e trasformazioni della società tedesca che arriveranno solo qualche anno più tardi. In che modo la figura della giovane agente di polizia è parte di questo annuncio di una nuova realtà?
All’inizio la ribellione di Elke si manifesta in maniera forse poco originale nei confronti della madre che la vorrebbe sposata come si deve e immersa nel classico ruolo femminile di quei tempi. In veste di poliziotta, poi, la signorina Zeisig è parte integrante del sistema e quindi durante gli scontri di Monaco sta «dall’altra parte della barricata». È comunque uno spirito critico e la sua età fa si che provi però un senso di vicinanza per le persone brutalmente aggredite dalla polizia. Più in generale, Elke è ambiziosa, il lavoro significa tutto per lei e viene prima di ogni altra cosa. Animata dal desiderio di entrare nel mondo chiuso e tutto maschile della squadra omicidi, credo incarni il nuovo modello di donne giovani e indipendenti, senza tuttavia sventolare bandiere ideologiche.
Grazie alle sue capacità, Elke conquista progressivamente un ruolo nelle indagini in corso su dei terribili omicidi, ma quale era effettivamente lo spazio occupato dalle donne nella polizia tedesca dell’epoca?
La sezione femminile della polizia criminale, Wkp, ha mosso i primi passi negli anni Venti, anche se all’epoca le poliziotte erano in realtà più qualcosa di simile alle assistenti sociali o agli operatori di strada: si occupavano di bambini e ragazzi allo sbando che rischiavano di finire in brutti giri o preda del crimine. In seguito, durante il Terzo Reich, la Wkp è stata utilizzata dai nazisti. Il suo compito, in linea con l’ideologia vigente, non era altro che individuare ragazze «asociali», etichettarle secondo criteri «criminal-biologici» e spedire quelle «patentemente depravate» nei campi di concentramento femminili. Così, fino agli anni Sessanta c’erano ancora delle poliziotte della vecchia guardia passate attraverso le maglie della denazificazione.

Se da un lato c’è Elke che indaga, in questo romanzo anche le vittime sono donne, spesso bambine. L’intera storia sembra così riflettere sulla condizione della donna nella Germania dell’epoca, un Paese che stava ancora facendo i conti con la fine della guerra e con il proprio terribile passato.
Durante il conflitto le donne hanno dovuto farsi carico di molti compiti maschili, assumendo le posizioni degli uomini che erano al fronte. Erano capofamiglia, portavano a casa il pane, erano autentiche artiste della sopravvivenza. Che lo volessero o meno, non potevano appoggiarsi a nessuno e dovevano essere forti. Prendevano decisioni vitali e questo ha garantito loro una certa indipendenza alla quale dovettero di nuovo rinunciare al ritorno degli uomini dalla guerra. Allora le madri ripresero ad insegnare alle bambine ad andare incontro alla vita a occhi bassi, rinunciando a qualsiasi pretesa. Non erano molte le giovani donne degli anni Cinquanta e Sessanta a opporsi, avanzando altre richieste. Una di loro è Elke Zeisig.

La rivolta di Schwabing, che arriva ancor prima del processo su Auschwitz, svoltosi a Francoforte nel 1963, e che è spesso considerato come il vero momento di svolta del dopoguerra tedesco, è un avvenimento poco noto: perché ha scelto di ambientare il romanzo intorno a quella vicenda, cosa rappresenta per lei?
I bambini del dopoguerra sono stati cresciuti da una generazione di genitori traumatizzati, emotivamente spenti. I metodi erano repressivi. Lo stato emotivo dell’intera nazione era caratterizzato da un senso di angustia, inibizione e oppressione. Gli anni Sessanta hanno portato aria nuova. I giovani volevano maggiori libertà, musica e divertimento, ma anche risposte sul ruolo dei genitori nel Terzo Reich, perché nelle famiglie tedesche non si parlava della Shoah e dei crimini della Seconda guerra mondiale. Gli scontri di Schwabing sono stati quindi un primo gorgoglio nelle profondità del vulcano, anche se privi dell’impeto politico dei movimenti studenteschi del ’68. In realtà già sul finire degli anni Cinquanta c’erano stati degli scontri innescati da «teppistelli» nella scena rock’n’roll, ma quelli di Schwabing raggiunsero nuove dimensioni e se ne parlò in tutto il Paese. Emerse il tema delle violenze della polizia e per la prima volta finì sotto i riflettori una gioventù che si ribellava alla generazione dei genitori e dei nonni.

Elke ci guida alla scoperta di una Monaco che a tratti può far pensare alla Parigi del film «Paris Blues» di Martin Ritt (1961), con i giovani che scoprono il jazz, il rock e i jeans. Allo stesso tempo si tratta di una città ferita dalla guerra, piena di poveri, di ragazzi abbandonati, così lontana dall’immagine «vincente» della Baviera di oggi. Cosa la affascina in quella città del passato?
Sono cresciuta negli anni Sessanta, anche se non a Monaco di Baviera, e ricordo l’atmosfera di malcontento e inibizione che si respirava allora. Scrivendo il romanzo mi sono rituffata in quell’epoca e mi sono resa conto per la prima volta di quanto le persone fossero ancora influenzate dalla guerra, dalla perdita, dalla violenza e dalla distruzione, le cui tracce erano ancora visibili. Crescere all’ombra di questo mostruoso trauma dominato da un mix di colpa, vergogna, piagnucolosa presunzione e menzogne, ha segnato la mia generazione in maniera permanente. Penso che Elke mi abbia accompagnato in un affascinante viaggio nella mia stessa storia.