Il Rivellino è un suggestivo spazio situato nella zona del Castello di Locarno, il piccolo centro nel cuore del Ticino, da anni diventato un importante polo di attrazione culturale soprattutto grazie al Festival Internazionale del Film giunto quest’anno alla 66° edizione.
La particolarità del Rivellino è che si tratta di una vecchia fortezza per anni chiusa e abbandonata e poi trasformata grazie all’intraprendenza di Arminio Sciolli, vulcanico operatore culturale ed esperto d’arte ticinese, in un Centro Culturale intitolato LDV Art Gallery. L’antica fortezza è diventata una galleria d’arte, uno spazio espositivo prestigioso che si è ritagliato in Svizzera un ruolo d’avanguardia per le proposte vivaci e stravaganti. Con un’operazione di riapertura/restauro della storica struttura con un intelligente sincretismo architettonico che fa coesistere i piani espositivi moderni dell’ingresso con le cavità e i percorsi originali sottostanti lasciati inalterati che ospitano proiezioni, installazioni, performance e altri eventi, Sciolli nel 2009 ha inaugurato la struttura con una mostra del grande regista teatrale Bob Wilson dando subito il segnale della linea «teorica» guida: eliminare le barriere tra le diverse discipline artistiche.

Tutto in «joual»

Quindi, quadri, video, fotografie di mostre temporanee, ma anche rifugio per intere collezioni senza fissa dimora, messa in valore dell’interdisciplinarità artistica, vettore d’attrazione per lasciti letterari, artistici, video-fotografici. E così dopo Wilson, l’Art Gallery ha ospitato la mostra letteraria del fotografo Mario Dondero, l’Archivio degli Amici del Museo Hermann Hesse, l’Archivio fotografico Ivan Bianchi, pioniere della fotografia in Russia, i disegni e un video di Peter Greenaway.
I vernissage degli eventi coincidono o sono a ridosso del Festival cinematografico puntando giustamente a incrementare l’offerta di proposte culturali per le migliaia di cinefili, appassionati e intellettuali che tradizionalmente per oltre dieci giorni ad agosto invadono Locarno, ma evidenziando anche con la coincidenza di programmazione come la vecchia fortezza sia diventata anche un «fortino» che respinge orgogliosamente l’inadeguato sostegno mediatico e un certo snobismo della comunità intellettuale svizzera. Insomma, non c’è proprio un grande feeling tra il kolossal festivaliero e la piccola/grande realtà emergente, ma ben vengano questi attriti se producono eventi spettacolari e culturali di alta qualità.
Quest’anno comunque il Rivellino si fregia di una strepitosa mostra, la più grande e unica, delle opere pittoriche di Jack Kerouac, il padre e il profeta della Beat Generation, autore del mitico romanzo-manifesto On the Road, intitolata Jack Kerouac – Ti Jean ou l’Art du Joual e curata come il bel catalogo (edizioni Elr/Ldv) dallo stesso Arminio Sciolli, da suo fratello Paolo e da Jean Olaniszyn. Fino al 25 agosto, si può qui vedere, per la prima volta (con l’eccezione di quattro quadri già esposti al Whitney Museum di New York e al Whistler Museum di Lowell, la città natale di Kerouac), un terzo della produzione pittorica dello scrittore franco-americano.
Si tratta di un centinaio tra dipinti, disegni, oggetti personali, contestualizzati agli anni Cinquanta attraverso manoscritti, libri, scenografie calligrafiche, video musicali, macchine dattilografiche, mobili, foto non solo di Kerouac, ma di tutta la cerchia di amici, scrittori, poeti, artisti e in particolare con un racconto fotografico della Beat Generation di Mario Dondero e Romano Martinis.

Insieme a Robert Frank

Molte delle opere pittoriche realizzate negli anni Cinquanta sono firmate «Jean-Louis Kérouac», in francese e con l’accento. E per rafforzare il richiamo alle radici francofone dello scrittore, la mostra propone anche la pubblicazione in facsimile – con l’autorizzazione degli eredi legali – della prima versione di On the Road in joual (il dialetto franco-canadese), unica lingua parlata da Kerouac fino all’età di sei anni, Sur la Route.
Per evidenziare e far scoprire la «multimedialità» di Kerouac, l’iniziativa del Rivellino dà anche l’opportunità di vedere il rarissimo mediometraggio Pull my daisy del fotografo e cineasta svizzero Robert Frank, grande amico di Kerouac, per il quale aveva scritto la sceneggiatura e dato la voce e, tra i disegni esposti, c’è anche quello con il nome e il numero di telefono di Frank la sera che si conobbero all’uscita di un club di jazz nel 1957.
Come succede per alcuni artisti poliedrici non è evidente il nesso estetico e linguistico tra una forma espressiva e l’altra. Nel caso di colui che ha rivoluzionato la letteratura come linguaggio ma anche come tecnica di scrittura (per comporre il suo famoso romanzo, si chiuse per tre settimane nel suo appartamento di New York, pare in stato alterato e con una Underwood portatile e un rullo di carta lungo trenta metri), che con la sua vita spericolata e sregolata on the road tra alcol, droghe, sesso e viaggi senza meta è diventato un modello trasgressivo e alternativo e ha influenzato lo stile di vita di generazioni di artisti e non solo (dai Beatles agli hippies), i suoi dipinti al di là dello specifico pittorico (dal fauvismo all’espressionismo, da Miro a Picasso, dall’astrattismo alla pittura americana contemporanea), comunicano con forte impatto la libertà di Kerouac. Una libertà che è innanzitutto creativa e libertà da condizionamenti esterni di qualsiasi tipo.
Basti scorrere i soggetti dei suoi quadri: il Cardinal Montini, Truman Capote, Van Gogh, Joan Crawford, donne, preti, animali, riletture visionarie, stravolgimenti di scene di vita quotidiana.