Sono in vigore da ieri in Kenya gli emendamenti alla legge elettorale che riducono tra l’altro i poteri della Corte suprema e rafforzano quelli della Commissione elettorale. È il nodo – sciolto d’imperio con un voto del parlamento il mese scorso – su cui si è consumata l’ultima e – parrebbe – definitiva rottura tra il presidente in carica Uhuru Kenyatta e l’opposizione guidata dal suo storico avversario, Raila Odinga. Il quale per protesta si era ritirato dal voto svoltosi comunque lo scorso 26 ottobre (Kenyatta è stato confermato presidente con il 98% dei voti, ma l’affluenza è crollata dall’80 al 38%), a parziale ripetizione di quello dell’8 agosto, che proprio la Corte suprema, con un gesto senza precedenti, aveva annullato per «palesi irregolarità».

Secondo le nuove regole, chiunque d’ora in poi denunci brogli e irregolarità nelle operazioni di voto (questo sosteneva il ricorso di Odinga) dovrà dimostrare che esse abbiano alterato l’esito del voto.

Per tutta risposta Odinga ieri ha dato seguito ai propositi di boicottaggio delle aziende riconducibili al presidente o considerate a lui vicine: il leader della Super alleanza nazionale (Nasa) ha dunque invitato i suoi sostenitori a colpire tre delle maggiori aziende del paese: la società casearia caseificio Brookside (di proprietà della famiglia Kenyatta), il produttore di olio da cucina Bidco e la compagnia di telefonia mobile Safaricom. Martedì scorso Odinga aveva invece annunciato la formazione di una «assemblea popolare» incaricata di indagare sui «fallimenti della commissione elettorale».

Il voto di giovedì scorso è stato accompagnato e seguito da violenze diffuse in tutto il paese. Gli episodi più gravi nella provincia occidentale di Nyanza, roccaforte Nasa, con almeno quattro manifestanti morti negli scontri. Due dimostranti sono stati uccisi dalla polizia a Kisumu, epicentro delle proteste. Altre due persone sono morte a Homa Bay e Bungoma.

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