La letteratura statunitense, almeno quella contemporanea, ha maturato rapporti a volte tormentati con la propria dimensione regionalistica. Da un certo punto di vista, è inevitabile che un paese tanto grande produca scritture nitidamente localizzate, e infatti molte opere americane posseggono una connotazione quasi etnografica nella valorizzazione di patrimoni umani e folklorici spesso relegati sullo sfondo della polifonia grandiosa delle scritture urbane.

Chris Offutt, per esempio, nel corso di una intervista apparsa su queste stesse pagine, dichiarò come il suo lavoro fosse un omaggio agli abitanti delle montagne appalachiane, e al contempo un atto di resistenza nei confronti dell’omologazione culturale imposta dal sistema tardo-capitalista. D’altra parte, la letteratura regionale soffre ancora l’accusa di provincialismo, e ne sconta la pretesa attitudine reazionaria.

Fondali evocativi
Se il rischio è cedere a un sentimentalismo pastorale di maniera (tipicamente statunitense, ma più frequente in alcune aree come il Sud), è pur vero che i vari, diversissimi microcosmi dell’America profonda sono anche stati utilizzati come una mise en abyme dell’intera esperienza umana, riprodotta in una serie apparentemente banale di situazioni e gesti quotidiani che proiettano però in una dimensione mitica il rapporto dell’umanità con il proprio spazio vitale. In questi casi, la caratterizzazione regionalistica può funzionare come un fondale riprodotto fin nei minimi dettagli, un elemento di ambientazione evocativo ma più o meno imprescindibile sul quale si mettono in scena temi e storie di più vasta risonanza. «Il locale delimitato, “quel pezzetto di terra da cui sei partito”, si estende fino ad abbracciare il mondo intero», ha scritto il critico Donald Kartiganer.

Il caso di Kent Haruf è diverso: le sue storie (tutte ambientate a Holt, immaginaria cittadina del Colorado) sembrano aspirare a farsi parte integrante di uno specifico paesaggio e delle particolari dinamiche relazionali che ospita, ridisegnandone i confini attraverso la parola ma restando sostanzialmente fedele a quella che Michail Bachtin, così lontano dai luoghi e dai ritmi di questi romanzi, ha definito l’«organica adesione e saldatura della vita e dei suoi eventi al luogo: al paese natio con tutti i suoi cantucci».

Il critico russo si riferiva al cronotopo dell’idillio, la particolare forma che l’intersezione di spazio e tempo acquisisce nella letteratura legata a un piccolo mondo autosufficiente, sostanzialmente sconnesso dal resto del creato. Benché le storie di Haruf siano non di rado molto poco idilliache, esse si sviluppano sempre all’interno della dimensione indicata da Bachtin: la sensazione è che al di là dei limiti di Holt potrebbe benissimo esserci nient’altro che il vuoto. Lo scrittore sembra animato dalla ferrea volontà di non abbandonare mai le cadenze e i confini della società reale e immaginaria che, con la forza di una sorta di missione spirituale, ha scelto di portare sulla pagina attraverso le storie intrecciate di un gran numero di personaggi in epoche diverse, dando vita a una piccola epica locale.

Haruf, del resto, aveva apertamente dichiarato la sua poetica nel primo volume della Trilogia della pianura, Plainsong: che vale sì come il Canto della pianura della traduzione italiana, ma anche come canzone semplice, una piccola ballata del quotidiano articolata tanto nel linguaggio essenziale, derivato senza dubbio dalla lezione di Hemingway, quanto nell’ordinaria modestia della storia narrata. Con l’eccezione di Vincoli (il più faulkneriano dei suoi romanzi), che racconta una saga familiare piena di dolore e violenza, tutta l’opera dello scrittore americano è inscritta nella cifra di una semplicità a volte disarmante, indirizzata verso una sorta di insistita esibizione delle virtù di uno stile votato all’onestà.

L’ultimo frammento del mosaico di Haruf, La strada di casa (traduzione di Fabio Cremonesi, NNE, pp. 194, € 18,00) descrive il ritorno alla contea di Holt, microcosmo umano lontanissimo dai ritmi frenetici delle città e del resto del paese a cui l’autore ha dedicato tutta la propria carriera. In questo ritorno a casa, è proprio l’idea di appartenenza – lo dichiara il titolo originale, Where you Once Belonged – a venire problematizzata, perché lo spazio che era un tempo familiare diventa una terra straniera, o peggio, apertamente ostile.

Se il senso del luogo è caratteristica fondamentale di questo genere di letteratura, che proprio nell’evocazione del genius loci, la profondità concettuale dello spazio in cui convergono storie personali e Storia, famiglia e comunità, trova la propria ragion d’essere, quel che interessa, in Haruf, è la tendenza a rimanere sulla superficie delle cose, a delineare forme nette e dinamiche. Attraverso uno stile che, pur nei frequenti accenti sentimentali, predilige una scrittura asciutta, votata allo schizzo, al dialogo e al puro piacere del racconto, La strada di casa dipinge infatti un ritratto nitido ma leggero, fatto di tinte lievi anche nei momenti più duri. Non che una dimensione più profonda sia assente dal testo, ma, in osservanza alla nota teoria dell’iceberg, viene tenuta perlopiù nascosta; si intuisce, ma è appena dischiusa. Jack Burdette, personaggio ingombrante sotto tutti i punti di vista, resta una figura opaca, impenetrabile e, in fondo, incomprensibile.

Appetiti di frontiera
Haruf (o meglio, il narratore, Pat Arbuckle, giornalista locale che esibisce una stringatezza cronachistica fedele all’ambito in cui presumibilmente si muove con agilità) ci mostra il personaggio attraverso un pragmatismo narrativo che predilige i gesti: la fisicità strabordante espressa nel football, nelle bevute colossali, e in un appetito insaziabile dimostrato tanto nella sessualità sguaiata quanto nell’impulso di divorare le vite di chi ha la sventura di avvicinarglisi. Il suo è un esempio di individualismo cieco, in bilico tra incoscienza e innocenza, che tradisce l’eredità dello spirito frontieristico di cui Holt è un’incarnazione più fedele di quanto voglia ammettere: nonostante la cittadina ostenti la sua ipocrita rettitudine, le apparenze della quotidianità nascondono a malapena esplosioni di violenza sempre in agguato.

Come già in Vincoli, l’atmosfera tutto sommato rassicurante della quale Haruf aveva investito la cittadina nei suoi primi romanzi anche qui vacilla: nella Strada di casa il rude ottimismo dell’America di provincia viene messo in dubbio, la luce delle altre storie diventa un crepuscolo che sembra preludere al buio fitto. Per i fedeli lettori italiani, con questo romanzo (che è in realtà il secondo in ordine di pubblicazione) la storia della contea si chiude per sempre, e in modo inaspettatamente brusco. Demiurgo delle piccole ma puntute evenienze del west contemporaneo, Haruf ha turbato la calma apparente di Holt per l’ultima volta.